Camorra, clan dei Casalesi: un disastro ambientale visibile dal satellite

Gli arresti degli ultimi giorni, effettuati al termine di una indagine condotta dalla Guardia di Finanza, nell’ambito di una operazione coordinata dalle procure di Santa Maria Capua Vetere e Nola, hanno mostrato ancora una volta le immagini dell’incredibile squallore dello scempio ambientale ed il “furto di futuro” provocato dalla camorra sul litorale domizio.

Un territorio, la “Terra dei Mazzoni” ed il litorale domizio, devastato dall’abusivismo edilizio, disseminato di cave abusive, di discariche abusive nelle quali sono stati sversati rifiuti tossici provenienti da tutta Italia, che richiederà non meno di tre generazioni per la bonifica, ammesso il caso esista veramente una volontà politica, e soprattutto culturale, e si cominci da subito.

Per rendersi conto della gravità del disastro ambientale e sociale realizzato in un quarantennio di follia politica, durante il quale è stata pianificata e favorita la mediazione con i clan della camorra per l’organizzazione del consenso politico, dando i natali ad una vera e propria economia del crimine, una vera e propria “imprenditoria mafiosa” che ha occupato interi settori dell’economia, come l’edilizia; basti fare un giro in macchina tra Castelvolturno e Villa Literno, oppure collegarsi a google maps e rendersi conto da soli dell’entità dei danni lasciati in eredità alle generazioni future.

L’assunzione di una responsabilità politica su ciò che andrebbe fatto adesso per fermare il disastro, che fino agli inizi degli anni ’70 non vedeva ancora un collegamento tra il circuito dei “mediatori politici”, i clientes delle cordate politiche che avevano accesso ai rubinetti per i finanziamenti pubblici, ed il circuito della economia mafiosa, dovrebbe inoltre disarmare, una volta per tutte, gli argomenti di quanti, ancora oggi, persino nel centrosinistra, vorrebbero far credere che possa essere ancora innescato quel salto di paradigma dell’economia mafiosa, favorendo l’emersione della nuova generazione delle imprese condotte dai prestanome dei boss, che ormai avrebbero messo in cassaforte competenze tecniche e risorse finanziarie realizzate in passato con le estorsioni, il riciclaggio del denaro sporco e l’eliminazione di ogni forma di concorrenza attraverso anni ed anni di intimidazioni e terrore.

La nuova generazione della “mafia casalese” non assomiglia affatto a quella dei boss Schiavone e Bidognetti, ma molto di più ai “capitani d’industria” che hanno studiato, che parlano le lingue straniere, non ha le mani lorde di sangue dei loro parenti stretti, e si offende anche se qualcuno si permette di ricordare loro l’origine di quel capitale che amministra. Anche oggi, come ieri, chiudono gli occhi quando devono registrare sui libri contabili operazioni di riciclaggio e/o di rifinanziamento illecito nelle imprese edili, nei centri commerciali e nelle attività di cui hanno il monopolio. A differenza di qualche anno fa però, si sentono i cavalieri di un modello di impresa che resiste alla competizione, benefattori di una redistribuzione equa degli appalti, per chi sta al gioco e partecipa con la propria “quota” (tangente è un termine che è sempre stato inappropriato) al club esclusivo della gestione delle risorse pubbliche e private .

Consegnare loro la gestione della bonifica del territorio sarebbe come voler chiedere a chi lo ha inquinato, devastato, umiliato e spogliato, a chi ha seppellito cadaveri e rifiuti tossici di convertire la propria “impresa” criminale in una impresa pulita. Trasformare un mafioso imprenditore in un imprenditore mafioso. Un gioco di parole…ma è quello che nei fatti sta avvenendo.

E’ questa una strada, lo dimostrano gli ultimi venti anni di “sviluppo socioeconomico” della provincia di Caserta, che può portare solo al suicidio della politica. Chi lo dice, e lo scrive, lo fa testimone dei bisbigli di quanti sommessamente giustificano l’imprenditoria mafiosa con argomentazioni di carattere antropologico-culturali, con rivendicazioni di carattere etnico-territoriali, come se stessimo parlando di una sventurata categoria di produttori autoctoni ingiustamente perseguitati dallo Stato, in quanto rappresentante della grande industria del nord e degli interessi capitalistici più consolidati.

Anche a “sinistra” (per usare un epiteto berlusconiano) c’è stato, e c’è, e sarebbe ora di dirlo con chiarezza, chi ha giustificato l’accumulazione delle risorse da parte degli imprenditori mafiosi come un processo ineluttabile, il cui “spirito animale” di accumulazione della ricchezza andrebbe in fondo messo in relazione allo stadio del sottosviluppo economico del mezzogiorno, dimenticando però la categoria fondamentale introdotta da Shumpeter per cui l’innovazione “creativa” che si attruibuirebbe all’impresa mafiosa, deve andare di pari passo con il perseguimento delle mete sociali dello sviluppo, il “bene collettivo”. Quanto di più lontano dalla cultura camorrista…

Ma questo è stato, ed è ancora oggi…ed a chi lo vive il territorio non resta che registrare la realtà per quello che è, oppure rimuoverla davanti allo “specchio” televisivo, l’unico modello sociale che può andare d’accordo con la cultura mafiosa, assecondando il disimpegno del “modello culturale” berlusconiano, unico collegamento con una “realtà” sognata, più che veramente vissuta. Il cui dibattito, in quei pochi contenitori televisivi che lo “rappresentano” è lontano anni luce dalla realtà…almeno da quella della provincia di Caserta.

Ma dicevamo di googlemaps…chi avesse voglia di collegarsi a questo link, osservando in lungo ed in largo il territorio di Castelvolturno, non può fare a meno di notare la quantità di “laghetti” che il paesaggio sembra promettere, come si trattasse una caratterisca naturale tipica di un territorio che in fondo è ex paludare, bonificato solo una ottantina di anni fa durante il regime fascista.

I “laghetti” di Castelvolturno (sono circa una quarantina) sono invece la prova più evidente di quanto l’assetto idrogeologico del territorio sia stato compromesso dall’economia criminale, una evidenza che non sfugge nemmeno al satellite. Queste pozze di acqua salmastra non sono naturali, ma sono nate tra gli gli anni ’70 ed ’80, e sono il risultato più evidente dell’estrazione abusiva di sabbia e ghiaia, da utilizzare come inerti per la miscelazione del calcestruzzo, negli anni ruggenti della cementificazione e dei grandi appalti pubblici per la realizzazione dei Regi Lagni, delle strade e degli assi ferroviari, delle edificazioni abusive e della ricostruzione post-terremoto. Gli anni in cui il territorio casertano veniva consegnato nelle mani dei clan.

Una volta svuotati della sabbia e della ghiaia queste buche scavate nel terreno, senza nessuna autorizzazione, si sono riempite di acqua, ed oggi fanno parte del paesaggio, al punto che alcuni di questi “laghetti” sono stati utilizzati per la caccia di frodo alle anatre, un affare che rendeva al clan di Bidognetti anche 15 milioni di lire al mese, come dimostrato dall’operazione “Volo Libero” che nel 2005 ha condotto all’arresto di 14 persone, tra cui Carmine Schiavone e Bernardino Terracciano (famoso per le sue interpretazioni cinematografiche nei film “L’imbalsamatore” e “Gomorra”, di M. Garrone).

I “laghetti” di Castelvolturno sono stati sicuramente utilizzati anche come discariche abusive per i rifiuti tossici, come è emerso dalle indagini condotte dall’ASL Caserta 2, che nel settembre del 2009 ha rilevato nelle acque la presenza di idrocarburi policiclici e policlorobifenili, nonché alte concentrazioni di arsenico, cadmio, cromo, mercurio, nichel, piombo, stagno, zinco ed altri metalli.

Nel 2008 invece, una relazione del Ministero dell’Ambiente, aveva rilevato che nei terreni adiacenti ai “laghetti” erano presenti concentrazioni di berinio, cobalto e titanio; mentre nelle acque sono state trovate anche significative quantità di alluminio e manganesio. In alcune delle pozze acquitrinose sono stati rilevati inoltre agenti inquinanti “non naturali, né agricoli”, prova di sversamenti abusivi di rifiuti tossici.

No, decisamente Castelvolturno, anche vista dall’alto, non somiglia affatto alla Finlandia, anche se tra i costruttori (alcuni dei quali in odore di mafia) che sognano di farla diventare invece una specie di Malibù c’è chi non disdegna i laghetti, possibile attrattiva turistica e naturalistica, magari di nuove specie animali mai viste prima.

Intanto qualcuno, nel mese di marzo, ha utilizzato le pozze d’acqua per affogare decine di bufalotti maschi ancora lattanti. “Imprenditori caseari”, per usare ipocritamente un eufemismo, i quali, a forza di smaltire illegalmente rifiuti tossici, dimenticano che esiste un reato anche per la crudeltà di uccidere gli animali in quel modo barbaro, avvelenando le acque di un altro degli esempi più vergognosi di scempio ambientale causato dalla camorra.

Emiliano Di Marco