Barak Obama torna ad occuparsi direttamente del conflitto israelo-palestinese. Secondo il New York Times, qualche giorno fa, alla fine di una conferenza stampa, il presidente americano ha detto che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese è “di vitale interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Sembra inoltre che a Washington stiano guadagnando terreno i fautori di una nuova strategia per la risoluzione del conflitto incentrata su un “piano americano”. Ma non è affatto chiaro che Obama la perseguirebbe con una determinazione ed efficacia maggiore di quanto abbia fatto nei tentativi esperiti finora.
Nesso strategico
Anche dopo l’insuccesso dell’iniziativa portata avanti fra la primavera e l’autunno del 2009, il presidente americano non ha mai accantonato la questione e nel marzo scorso ha fatto un nuovo tentativo, organizzando negoziati indiretti fra le parti. Il tentativo è naufragato dopo l’annuncio di nuove costruzioni a Gerusalemme Est proprio nel corso della visita ufficiale in Israele del vicepresidente americano Joe Biden, che vi si era recato allo scopo di convincere il governo israeliano a partecipare agli auspicati negoziati indiretti, a cui i palestinesi avevano aderito forti anche di un viatico della Lega Araba. Queste circostanze, in sé drammatiche o drammatizzate che siano state, devono avere colpito profondamente il presidente che, dopo colloqui particolarmente freddi con il leader israeliano Benjamin Netanyahu a Washington, ha di nuovo rilanciato l’impegno dell’amministrazione sulla questione israelo-palestinese.
È In questo contesto che si collocano le dichiarazioni del generale David Petraeus al Congresso. Secondo Petraeus l’assenza di progressi nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese crea un’atmosfera ostile agli Stati Uniti, che rischia di compromettere gli interessi che l’amministrazione persegue nella regione. Le nuove dichiarazioni di Obama riprendono senza dubbio le valutazioni del generale Petraeus. Tuttavia, è sin dagli inizi del suo mandato che il presidente americano pone l’accento sul nesso fra gli interessi americani nella regione e il conflitto israelo-palestinese. Nella primavera del 2009, a Netanyahu che insisteva sulla priorità della lotta comune contro l’Iran, Obama rispose che per contrastare l’Iran sarebbe stato necessario risolvere il conflitto israelo-palestinese. Perciò, la novità non sta nel riconoscimento del legame tra le due questioni, ma nella scoperta che Obama va facendo della sua pregnanza, via via che le sue iniziative per la risoluzione del conflitto incontrano nuovi ostacoli e resistenze.
La crescente enfasi sul nesso fra il conflitto e la sicurezza nazionale americana riflette però un nuovo senso di urgenza, con cui Israele dovrà fare i conti. Netanyahu e il suo governo hanno fin qui avuto un atteggiamento piuttosto arrogante, che non è però senza rischi, in particolare quello di sottovalutare le reazioni di Washington. Il fatto che un militare di grande prestigio nel suo paese come Petraeus abbia evidenziato il nesso di cui parliamo è un fatto di grande rilievo, anche perché l’opinione pubblica tende naturalmente a collegarlo con i rischi che i soldati americani corrono quotidianamente sui vari fronti del Grande Medio Oriente. Un collegamento dal vago sapore demagogico, che Petraeus ha negato, ma che Obama ha ripreso, affermando che a conti fatti il conflitto impone agli Stati Uniti “un costo significativo in termini di sangue e soldi”.
Insomma, il nesso fra risoluzione del conflitto israelo-palestinese e sicurezza nazionale o interesse strategico degli Stati Uniti, che il presidente ha teorizzato sin dall’inizio del suo mandato, si è ora rafforzato, diventando una componente strutturale della politica americana in Medio Oriente. Ma, dopo i fallimenti del recente passato, quali politiche possono dare una risposta efficace a questo problema strategico?
Un piano non basta
L’amministrazione ne sta ancora dibattendo, ma dalle notizie che trapelano, sembra che siano in forte ascesa le quotazioni di quanti sostengono la necessità che il presidente metta sul tavolo un suo dettagliato piano di pace, un “piano americano”. Se questa prospettiva prevalesse, gli Usa si spingerebbero, per certi aspetti, al di là della loro posizione tradizionale, che assegna agli attori esterni al conflitto un ruolo solamente di facilitatore di decisioni che devono essere negoziate e prese dalle parti. Clinton già percorse questa strada con i suoi “parametri”, che furono però rapidamente superati dalle dinamiche interne al conflitto.
L’esperienza di Clinton insegna fra l’altro che non basta entrare nei dettagli e dire alle parti che cosa devono fare, ma occorre anche un meccanismo che le incentivi a farlo. In realtà, la politica di Obama ha manifestato nuove e più alte ambizioni, ma non è riuscita ad individuare gli strumenti per realizzarle. Quello che Obama oggi propone è un ritorno al negoziato, sotto l’egida di un buon diplomatico come George Mitchell, il suo inviato speciale per il Medio oriente. Ma le parti non vogliono negoziare, e il contesto politico effettivo rafforza e spiega questa loro determinazione. Per questo motivo sono già falliti due tentativi e un eventuale terzo – incentrato su un piano del presidente – è destinato ugualmente a fallire, malgrado l’autorità su cui poggerebbe (e che, del resto, è stata messa in discussione e non poco, specialmente dai leader della destra israeliana).
Obama deve rendersi conto che se fa una proposta deve anche sapere come reagire in caso sia rifiutata. Quando nella primavera dell’anno scorso, l’amministrazione chiese con insolita fermezza la fine degli insediamenti, al diniego adamantino di Netanyahu fece marcia indietro con la coda tra le gambe. È auspicabile che non si ripeta lo stesso copione nel caso sia avanzato un “piano americano” di risoluzione del conflitto. Perciò, la proposta deve essere avanzata pensando anche ad un meccanismo che impedisca alle parti di dire semplicemente “no” e tornarsene ai rispettivi palazzi. Questo meccanismo potrebbe essere l’adesione, più o meno formale, degli Stati Uniti all’idea dell’ex-Alto rappresentante della politica estera europea Javier Solana – cui oggi aderisce il governo palestinese di Mahmud Abbas – di rimettere la questione, ove continuasse a rivelarsi refrattaria a qualsiasi soluzione, nelle mani delle Nazioni Unite affinché assumano una decisione finale.
Tensione crescente
È però davvero improbabile che gli Stati Uniti imbocchino questa strada. L’insistenza sul nesso fra persistenza del conflitto e sicurezza americana può portare a crescenti tensioni nei rapporti israelo-americani. Per esempio, la decisione di Israele di non partecipare alla conferenza sulla sicurezza nucleare può allargare la percezione del divario fra Israele e Usa che oggi aleggia a Washington. Ciò potrebbe anche far precipitare, prima o poi, una crisi politica a Gerusalemme, portando alla formazione di una coalizione di centro-destra, comprendente il partito Kadima, più propenso a riprendere i negoziati. Oppure la Casa Bianca deciderà di adottare qualche sanzione minore (alla James Baker) nei confronti di Israele, il che potrebbe peraltro a sua volta innescare una crisi politica interna. Difficilmente, invece, gli americani decideranno di rimettere la questione alle Nazioni Unite.
Alla radice di queste difficoltà c’è un divario fra ambizioni e strumenti e, soprattutto, un certo illuminismo da parte del presidente, il quale ha molta fiducia nel dialogo in quanto tale e nei “buoni” parametri. Per uscire dall’impasse, l’amministrazione dovrebbe uscire dal suo illuminismo e fare più politica: nei confronti di Israele e delle lobbies ebraiche americane, ma anche della Siria, e degli arabi in generale. Questo richiede però più un Kissinger che un Mitchell e una maggiore consapevolezza, che la realtà si presta ad essere plasmata, ma solo in una certa misura e ad alcune condizioni.
Roberto Aliboni – AffarInternazionali