La lettera della figlia di un giornalista in carcere si trasforma in strumento di protesta.
“In passato si sentiva la voce di solo pochi combattenti per la libertà e i diritti, ma ora queste voci sono aumentate. Con l’incarcerazione di una di queste voci, migliaia di altre grida per la libertà si alzano da ogni dove”. “Sono orgogliosa di te e so che il tuo grande spirito non è confinato da una piccola cella”. Queste sono le parole contenute nella lettera scritta da Mariam Baghi in cui essa esprime certezza che in Iran si stanno moltiplicando le voci di chi cerca la libertà e orgoglio per il padre in carcere a Teheran. Nelle ultime ore questa lettera sta circolando tra i vari siti web dell’opposizione iraniana trasformandosi di fatto, in voce di dissenso al regime degli Ayatollah. L’epistola è indirizzata al padre, Emadeddin Baghi in carcere a Teheran. L’uomo, un giornalista riformista, venne arrestato lo scorso 27 dicembre. In quella giornata di protesta dell’opposizione iraniana che è ricordata come la più repressa nel sangue dal regime. La sua colpa, secondo la figlia, l’aver fatto un’intervista al compianto Ayatollah dissidente Hossein Ali Montazeri. Il cui video venne poi, mandato in onda dalla Bbc in persiano in occasione della sua morte avvenuta lo scorso dicembre. Il secondo arresto per Emadeddin. Il giornalista aveva già trascorso in carcere oltre tre anni quando era stato responsabile dell’Associazione per la difesa dei diritti dei detenuti. Nella lettera la Baghi figlia sottolinea anche che, come il padre, ci sono persone in prigione il cui unico peccato è la critica e la richiesta di riforme: “una via che ci hanno indicato i profeti e gli Imam”, afferma la donna. Il significato di questa lettera assume un importanza superiore anche in virtù del fatto che in Iran la repressione interna continua e non mancano nemmeno le minacce di morte ai familiari di chi, malgrado le minacce e i rischi, continua a mobilitarsi per l’avvento della democrazia nel proprio Paese. Nei giorni scorsi era stata rivelata dal sito riformista ‘Roozonline’ una raccapricciante minaccia. “Vostro figlio sta parlando troppo. Dissuadetelo da rilasciare dichiarazioni ostili al governo. Ricordatevi che anche se si trova all’estero potrebbe sempre succedergli qualche incidente imprevisto”. E’ questo il contenuto di una conversazione telefonica avutasi tra un agente dell’intelligence iraniana del corpo dei Pasdaran e la famiglia in Iran del giornalista iraniano il settimanale britannico ‘Newsweek’, Maziar Bahari. Bahari che attualmente residente nel Regno Unito, ha subito presentato una denuncia alla polizia britannica. In essa esprime la sua preoccupazione per la sua incolumità e per la sicurezza dei propri familiari in Iran. Il giornalista iraniano venne arrestato durante gli scontri post elettorali dello scorso giugno in Iran. Per lui come per tanti altri, l’accusa fu di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative, e di aver offeso la Guida Suprema iraniana. Il tutto aggravato dal fatto di aver svolto attività giornalistica senza autorizzazione governativa. Bahari venne rilasciato solo lo scorso mese di ottobre, dopo 118 giorni di reclusione. L’uomo tra meno di una settimana dovrebbe presentarsi al processo a proprio carico presso il Tribunale della Rivoluzione di Teheran. In merito si è già espresso affermanmdo di non ritenere opportuno parteciparvi, perchè si ritiene innocente, ma incapace di confutare le accuse del Tribunale iraniano. Nel frattempo dalla repubblica islamica giungono segnali preoccupanti che indicano quanto il regime stia cercando di mettere a tacere il dissenso interno nel Paese. “Con l’avvicinarsi del primo anniversario delle proteste contro la vittoria elettorale presidenziale di Mahmoud Ahmadinejad la pressione del regime iraniano sulla dissidenza si fa più forte”. E’ questa la forte denuncia lanciata la scorsa domenica da Fatemeh Karroubi, la moglie di Mehdi Karroubi l’ex candidato alle presidenziali uscito sconfitto ed ora insieme all’altro candidato, Mir Hossein Moussavi, è il leader dell’opposizione iraniana. La donna preoccupata per il marito, che negli ultimi mesi è stato fatto oggetto più volte di attacchi, anche fisici, ha lanciato attraverso le pagine web del sito riformista ‘Sahamnews’ un monito al governo di Teheran: “Se accadrà qualcosa a me, a mio marito o ai miei figli, il regime ne sarà ritenuto direttamente responsabile”. Parole dure e forti che inserito nel contesto illustrano il clima che si respira in Iran. Una settimana fa la Francia aveva espresso una dura condanna al proseguimento della repressione interna in Iran. “Non possiamo restare silenziosi davanti al proseguimento della repressione interna e gli oltraggi ai diritti umani, in particolare la libertà di espressione, nella Repubblica islamica”, aveva affermato Bernard Valero, portavoce del ministero degli Esteri. “Invitiamo le autorità iraniane a rispettare il diritto di espressione democratico dei cittadini e dei partiti politici, la libertà dei media, e a liberare tutte le persone ingiustamente incarcerate”, aveva aggiunto il portavoce. L’occasione era stata data dalla decisione annunciata, lo scorso 19 aprile, dalla Commissione governativa di sorveglianza sulla stampa di voler mettere al bando il quotidiano riformista ‘Bahar’ e due partiti politici: il Fronte di partecipazione dell’Iran islamico (Mosharekat) e l’organizzazione dei Mujaheddin della rivoluzione islamica (Omri). Due partiti che alle presidenziali del 2009 avevano sostenuto il candidato riformista Moussavi. Una chiara punizione per chi si era schierato contro il regime. Una punizione che va ben oltre infatti, lo scorso 19 aprile sono stati condannati, dalla Corte rivoluzionaria di Teheran, a 6 anni di reclusione ciascuno: Mohsen Mirdamadi, capo del più importante partito riformista, il Mosharekat. Mostafa Tajzadeh, già vice ministro dell’Interno nel governo dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, e Davud Soleimani, ex deputato appartenente al Mosharekat. I tre riformisti iraniani, che erano in carcere dopo essere stati arrestati durante le proteste post elettorali, potranno fare ricorso in appello. Le loro colpe, secondo la corte, manifestazioni illegali, attività contro la sicurezza dello Stato e propaganda contro il sistema. Mirdamadi e Tajzadeh lo scorso mese erano stati scarcerati su cauzione ora dovranno rientrare i carcere. Nel frattempo dopo quasi 7 settimane di detenzione, tutto il mondo si sta mobilitando per ottenere la liberazione di Jafar Panahi, il regista iraniano detenuto senza un’accusa ufficiale dalle autorità di Teheran. Cineasti di diverse nazionalità hanno firmato una petizione per chiedere ‘l’immediato rilascio’ del regista che ha ricevuto riconoscimenti nei festival di Venezia, Cannes, Berlino, Locarno e Chicago.
Ferdinando Pelliccia