Ancora violenze contro i caschi blu in Darfur. Uccisi due peacekeping e altri tre feriti. Quello di ieri non è il primo ne sarà l’ultimo degli attacchi compiuti contro la forza di pace ONU/Ua dell’UNAMID da quando, nel gennaio 2008, essa è ufficialmente subentrata all’Amis, la forza di pace dell’Unione Africana, Ua, ed è incaricata di mantenere la pace in Darfur. L’episodio di ieri è secondo per gravità solo a quello del luglio 2008 quando nel corso di un’imboscata erano stati uccisi 7 peacekeeping mentre altri 22 erano rimasti feriti. Con i due morti di ieri aumenta ulteriormente il numero dei caduti in seno alla missione di pace dell’ONU in Darfur che sta per toccare quota trenta morti. Per ora sono solo 24. Un prezzo altissimo pagato in nome della pace e del rispetto dei diritti umani. In molti ritengono che questo sia il chiaro segnale che si vuole spaventare ed allontanare testimoni scomodi di quanto avviene in quella parte del mondo. L’ONU ha finora sempre condannato, definendoli un atto ‘inaccettabile’, ogni attacco contro la forza di pace in Darfur e chiesto che non si ripetano. Il Consiglio di Sicurezza ogni volta poi, ha sempre chiesto che i responsabili di questo crimine venissero portati di fronte alla giustizia. Appelli sempre disattesi dal governo di Khartoum. I due caschi blu morti sono di nazionalità egiziana. Le vittime sono state colpite quando il convoglio su cui viaggiavano, composto da tre mezzi e 20 militari, è caduto in un’imboscata tesa loro da un gruppo di miliziani locali. I veicoli sono stati centrati dal fuoco di mitragliatrici pesanti. L’episodio si è verificato nel villaggio di Katila, nella zona di Edd al Fursan, nel sud della regione sudanese. Come sempre accade in questi casi l’ONU ha espresso la propria indignazione per l’uccisione dei due caschi blu egiziani. Il rappresentante speciale dell’Onu in Darfur e capo della missione di pace Minuad, Ibrahim Gambari. ha condannato l’attacco sottolineando che questi soldati di pace sono in Darfur per aiutare a ristabilire la stabilità. “La Minuad non si lascerà intimidire e resta determinata a portare a termine il suo servizio di pace”, ha dichiarato Gambari.
Appena qualche giorno fa erano stati liberati 4 caschi blu sudafricani rapiti dal ‘Movimento popolare di lotta democratica’ l’11 aprile scorso in Darfur. Il gruppo ribelle aveva ceduto alle forti pressioni del governo sudanese e delle autorità locali del Darfur meridionale, una delle tre provincie che costituiscono la regione sudanese del Darfur. Il fatto aveva acceso una speranza negli animi di tutti per poi, rivelarsi solo un episodio isolato. La tragedia del Darfur è esplosa in tutta la sua drammaticità nel febbraio del 2003 quando le popolazioni locali, di etnia africana, circa 6 milioni, si ribellarono alle angherie dei governanti di Khartoum, di etnia araba. Da allora l’ONU ha stimato che siano state uccise oltre 300mila persone tra orrori senza fine, e che siano quasi 3 milioni i profughi e gli sfollati. Cifre che le autorità di Khartoum contestano affermando che i morti sono solo 10mila nel tentativo di sminuire la portata del dramma del popolo del Darfur. Purtroppo dopo il 2003 i gruppi di guerriglieri antigovernativi si sono poi, scissi e moltiplicati, diventando incontrollabili e addirittura senza più seguire una strategia comune.
Nel frattempo nella regione, grande quanto la Francia, hanno cominciato anche a proliferare bande armate di miliziani che in molti ritengono armati e finanziati da Khartoum allo scopo di destabilizzare ulteriormente la situazione. A questi miliziani infatti, sono affidati i lavori più ‘sporchi’ e il compito di provocare la reazione armata sia dei ribelli antigovernativi sia dei peacekeeping. Attualmente, i caschi blu costituiscono il tentativo generoso della comunità internazionale di salvare il salvabile in Darfur, con mezzi modesti e quasi a mani nude. Essi sono di fatto, l’esempio più emblematico della scarsa capacità dell’ONU di riuscire a ristabilire e conservare l’ordine internazionale. In Darfur, l’UNAMID opera grazie alla risoluzione 1969 sostenuta da Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Congo, Perù e Slovacchia che prevedeva l’invio di una forza di peacekeeping di 26mila caschi blu nella tormentata regione occidentale del Sudan. Operano sulla base del capitolo 7 della Carta ONU, che autorizza l’uso della forza per proteggere i civili e per prevenire attacchi armati che ostacolino l’adempimento della missione. E’ previsto anche che essi non possano sequestrare le armi rinvenute, ma solo autorizzati a monitorarne i traffici. Ed invece, a distanza di due anni la missione di pace dispone di poco più di 18mila. Di questi 7500 sono i caschi verdi dell’Ua già dispiegati sul terreno dal 2004 e che hanno dato scarsi risultati. Era il contingente di pace dell’Amis. Essi hanno semplicemente cambiato elmetto, indossando quello dei caschi blu dell’Onu. Ad essi poi si sommano altri 10mila ‘new entry’. Sono quest’ultimi composti da 7.800 soldati e 1600 poliziotti. Uomini male equipaggiati e male addestrati che sono giunti in Sudan per lo più provenendo da Paesi africani, questo soprattutto per volere del governo di Khartoum. Infatti, le autorità sudanesi hanno sempre imposto che la forza di pace sia composta da truppe africane e non occidentali. Una volontà questa, ovviamente dettata dalla consapevolezza che i militari africani sono meno addestrati ed equipaggiati di quelli occidentali. Un fatto questo che determina che la loro presenza incide poco sul territorio. Comunque sia i peacekeeping rimangono, per le popolazioni civili del Darfur, l’unica speranza per poter riuscire a sopravvivere.
Ferdinando Pelliccia