Kirghizistan, la spirale della violenza rischia di estendersi in Asia centrale

Sono ormai alcuni giorni che il governo provvisorio del Kirghizistan sta cercando di ristabilire l’ordine nella regione meridionale dell’impoverita repubblica kirghisa, dove centinaia di persone sono morte, e centinaia di migliaia sono i profughi fuggiti al confine con l’Uzbekistan, dopo gli scontri tra uzbeki e kirghisi. La violenza, palesemente orchestrata da parte di terzi per far fallire il prossimo referendum sulla Costituzione e mettere in luce l’inefficacia del governo ad interim, è diminuita, sebbene le tensioni siano ancora alte e le condizioni di sicurezza restino estremamente gravi. Il governo ad interim e le Nazioni Unite hanno confermato che gruppi di uomini armati a volto coperto hanno attaccato sia uzbeki e kirghisi nel tentativo di seminare la violenza e la discordia tra i due gruppi.

Il governo provvisorio guidato da Roza Otunbaeva, dopo le proteste di aprile che costrinsero il presidente Kurmanbek Bakiev a cedere il potere, aveva alimentato la speranza di milioni di persone – sia tra gli uzbeki che tra i kirghisi – in un futuro più democratico e degno, dopo anni di miseria e di inefficaci politiche pubbliche. Questa speranza sembra ora svanire mentre gli scontri tra uzbeki e kirghisi minacciano l’integrità e la sovranità di una nazione che aveva già sperimentato violenti conflitti fra i due gruppi nel 1990 – quando l’Unione Sovietica stava esalando il suo ultimo respiro.

Le complessità della popolosa Valle di Fergana, che ospita diversi gruppi etnici e possiede scarse risorse, rendono il conflitto in Kirghizistan particolarmente pericoloso, dato che vi è il rischio che la violenza superi i confini nazionali. Le dure condizioni economiche e sociali che si registrano in tutti e tre i paesi che condividono la valle di Fergana – Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan – rendono la situazione particolarmente pericolosa. A ciò si aggiunga la vicinanza della regione all’instabile Afghanistan, le operazioni locali compiute dalla criminalità organizzata e dai cartelli della droga, e la presenza di gruppi estremisti come Hizb-ut-Tahrir, il Movimento islamico dell’Uzbekistan, Al-Qaeda, e altri.

Lo scenario peggiore

Il governo provvisorio ha riconosciuto di non avere il controllo sul terreno e ha fatto appello all’invio di una forza di pace. Finora, non è giunta nessuna risposta affermativa. In parte, ciò riflette le preoccupazioni sui probabili pesanti costi finanziari e politici di un eventuale intervento. Alcuni sperano ancora che il traballante governo provvisorio possa riportare la situazione sotto controllo.

Ma vi è un rischio. Non solo un numero significativamente più alto di persone rischia di morire con il protrarsi degli scontri, ma la situazione potrebbe sfuggire di mano completamente, compromettendo notevolmente la sicurezza nell’instabile regione circostante e richiedendo di conseguenza un impiego ancora più ingente di truppe e di materiali per fermare la violenza.

Che la Russia consideri o meno l’Asia centrale come parte della sua “sfera d’influenza”, essa deve intervenire. E lo stesso dovrebbero fare gli Stati Uniti, che promuovono con forza i diritti umani e la sicurezza in linea di principio, ma spesso sono lenti a mettere in pratica le loro affermazioni.

Entrambi i paesi hanno basi militari in Kirghizistan; il centro di transito americano a Manas è di importanza cruciale per le operazioni di guerra della NATO in Afghanistan. Entrambi i paesi hanno anche l’opportunità di lavorare insieme – a livello bilaterale o multilaterale – per contribuire a stabilizzare questa parte del mondo. La competizione geopolitica tra Washington e Mosca, che ha seriamente influenzato i recenti sviluppi in Kirghizistan, potrebbe adesso essere trasformata in cooperazione. L’incapacità di farlo potrebbe determinare ulteriore violenza e insicurezza.

La fragilità del Kirghizistan

Ma da cosa dipende la perdurante instabilità del Kirghizistan? E cosa deve essere fatto per stabilizzare il paese? Le tensioni etniche ci sono sempre state, in particolare nel sud, che ospita una popolazione relativamente giovane la quale deve confrontarsi con l’elevata disoccupazione e con le misere condizioni di vita. Sotto molti aspetti, la regione meridionale è anche economicamente e culturalmente separata dalle zone settentrionali del paese. Chiaramente, le cosiddette tensioni etniche hanno radici socio-economiche, ed è molto meglio lavorare su di esse in tempo di pace, piuttosto che cercare di risolverle con la violenza. Il susseguirsi degli eventi in Kirghizistan – gli scontri fra kirghisi e uzbeki nel 1990, la “Rivoluzione dei Tulipani” nel 2005, le proteste del 2010, e gli scontri attualmente in corso – dimostra l’instabilità e la fragilità di questo paese autoritario.

In effetti, è la natura autoritaria dei regimi e della politica in Kirghizistan – un paese caratterizzato da corruzione, nepotismo, e da politiche nazionali ed internazionali fallimentari – che ha privato la popolazione della possibilità di uno sviluppo economico e della stabilità sociale. Ed ora ciò ha portato a mettere in discussione la sopravvivenza stessa dello stato del Kirghizistan.

La lezione da trarre è chiara. Il Kirghizistan ha bisogno di attuare un programma di sviluppo nazionale su vasta scala concentrandosi sull’integrazione economica delle regioni che lo compongono e sul consolidamento dell’identità nazionale. Esso deve creare istituzioni pubbliche efficaci e responsabili, in grado di rispondere alle esigenze sociali ed economiche della popolazione e di promuovere una cultura democratica e politica inclusiva. Spezzare la spirale della povertà e dell’autoritarismo è una necessità. Fermare la violenza è ormai un obbligo urgente.

Roman Muzalevsky è un analista specializzato in affari internazionali e questioni di sicurezza legate all’Asia centrale ed al Caucaso

Traduzione a cura di Medarabnews.com