Medioriente, vento di guerra tra Libano, Siria e Israele

La scaramuccia al confine israelo-libanese di inizio agosto si è rivelata un semplice incidente circoscritto alla zona in cui è avvenuta. Giustamente, tuttavia, sul momento ha suscitato vive preoccupazioni, poiché si è prodotta nella zona oggi più esposta ad una crisi che potrebbe a sua volta sfociare in un conflitto regionale più ampio e, forse, qualcosa di più. Altri incidenti potrebbero infatti innescare un’escalation pericolosa. Geoffrey Kemp su “The National Interest” dice, senza tema di incorrere in esagerazioni, che la situazione presenta analogie con la Serbia del 1914.

L’International Crisis Group ha appena pubblicato un rapporto non privo di allarme sull’area che comprende Libano, Siria e Israele. Il piccolo scontro tra i militari israeliani e libanesi insomma non è tanto significativo in sé, ma perché è un buon “memento” della particolare instabilità dell’area, in un periodo in cui altre crisi, gravi, ma forse meno preoccupanti, almeno nel breve termine, attirano invece l’attenzione dell’opinione pubblica in Iraq, in Yemen e in Palestina, per non parlare dell’Afghanistan e del Pakistan, dove sono in corso conflitti armati su larga scala.

Germi di un nuovo conflitto

In Libano, l’assassinio del presidente Rafiq Hariri nel 2005 ha interrotto la pace sotto guardia siriana che era prevalsa grazie agli accordi di Taif del 1989 e alla conclusione della lunga guerra civile libanese. Dopo l’assassinio, attribuito alla Siria, le forti pressioni degli Stati Uniti costrinsero Damasco a ritirare le sue truppe dal Libano. Inoltre, fu istituito un tribunale internazionale con il compito di trovare e processare esecutori e mandanti dell’assassinio. Questo indebolì il ruolo politico dello Hizbollah e degli sciiti, sostenuti dalla Siria e dall’Iran, e mandò per contro al governo una coalizione presieduta da Fuad Siniora (detta del “14 marzo”), independentista e democratica, fortemente collegata all’Occidente.

Negli anni seguenti il predominio della coalizione del 14 marzo si è eroso fino a portare, con le ultime elezioni, al rientro dello Hizbollah in un governo di unità nazionale e a un riavvicinamento fra Libano e Siria – ironicamente guidato dal figlio del presidente assassinato, Saad Hariri, oggi primo ministro del governo libanese.

Nel frattempo, c’è stata anche un’erosione dell’equilibrio militare uscito dalla guerra fra Israele e Hizbollah del 2006. A seguito del conflitto si è creata una reciproca deterrenza, ma assai fragile. In realtà, la relativa pace che predomina dalla conclusione della guerra si è accompagnata a un continuo riarmo, che la missione Onu (Unifil) schierata in Libano dopo la fine del conflitto non ha potuto o saputo neppure limitare.

Le forze militari dello Hizbollah dispongono ora di una quantità e varietà notevole di armi missilistiche, in grado di arrivare in profondità sul suolo israeliano. Israeliani e libanesi sono consapevoli che un’eventuale ripresa del conflitto armato sarebbe devastante specialmente in termini di vittime civili e danneggiamenti, perché tutti combatterebbero con il proposito di ottenere una vittoria decisiva al posto della precaria deterrenza emersa dagli scontri del 2006. Come giustamente osserva il rapporto dell’International Crisis Group, la precarietà della deterrenza in atto incentiva le parti a riarmarsi e porta quindi con sé i germi di un nuovo e più devastante conflitto.

Sarebbe un conflitto grave in sé, ma soprattutto per le sue implicazioni a livello regionale e internazionale. Potrebbe risucchiare nel vortice, oltre ai soliti “guerriglieri” dell’islamismo transnazionale, anche la Siria e l’Iran, forse non solo indirettamente, ma con le loro forze militari. E, sebbene Obama sia tutt’altro che attratto da interventi militari, potrebbe trascinare anche Washington e allargarsi ad altre aree del Medioriente.

La miccia della sentenza su Hariri

L’esca di un’evoluzione del genere non è tanto militare – perché le forze militari sono entrambe impegnate a mantenere la deterrenza in atto, per quanto contraddittoria e precaria – ma politica. È dall’intrinseca tensione che domina la politica interna libanese che può venire la scintilla di un conflitto armato. Che potrebbe essere prima civile e poi fra stati, magari su chiamata delle fazioni libanesi in lotta.

La scintilla incombe perché, secondo alcune voci autorevoli il tribunale internazionale che si occupa dell’assassinio dell’ex presidente Hariri si appresterebbe a emettere nel prossimo settembre una sentenza che del delitto incolperebbe alcuni affiliati dello Hizbollah. Mentre il leader dello Hizbollah ha subito messo le mani avanti dichiarando che una tale sentenza sarebbe il frutto di un complotto israelo-americano e quindi inaccettabile, Saad Hariri, al fine di prevenire l’ennesima guerra civile, ha affermato che nessuno dubiterebbe che questi accoliti dello Hizbollah avrebbero agito al di fuori delle direttive e del controllo del partito. Ma in questa affermazione non si riconosce uno schieramento politico compatto. È evidente che i drusi o questa e quella fazione potrebbero non pensarla come Saad Hariri. Di fatto, usando la sentenza come pretesto, sono in molti che potrebbero riattizzare le tensioni, se non ridare il via al conflitto civile.

In realtà, oggi nel Medio Oriente, mentre la diplomazia internazionale e gli Usa sembrano prevalentemente occupati dal conflitto israelo-palestinese, non c’è nulla di più instabile e rischioso del Libano.

Diplomazia saudita in movimento

Ciò è molto chiaro invece alla diplomazia saudita e a quella siriana, che hanno organizzato il 30 luglio scorso un incontro tripartito libano-siro-saudita a Beirut (preceduto, il giorno prima da un vertice siro-saudita a Damasco) allo scopo di tranquillizzare il Libano sulle conseguenze della sentenza dell’Onu. I sauditi, patrocinatori degli accordi di Taif e grandi protettori della Famiglia Hariri, hanno grande influenza a Beirut. D’altra parte, hanno avviato un riavvicinamento con la Siria già dallo scorso ottobre 2009, quando ci fu una solenne e proficua visita di stato di re Abdullah a Damasco.

La diplomazia saudita ha l’obiettivo di impedire che l’attuale tensione fra l’“asse della resistenza” guidato da Teheran e la coalizione di arabi moderati, di cui essa stessa è alla guida, si trasformi in un conflitto armato regionale o sia aggravata da conflitti armati locali. La visita tripartita mira a un’intesa per un ritorno della Siria in Libano che serva a controllare le tensioni interconfessionali di quel paese, in particolare lo Hizbollah, ed evitare che esse sfocino in una nuova guerra civile. La diplomazia saudita, come già al tempo dell’accordo della Mecca fra Fatah e Hamas, fa cose che gli Usa non possono fare e che neppure lontanamente pensano a sostenere dopo che sono state fatte.

Nodo siriano

La Siria trae da questi sviluppi un grande vantaggio, perché, mentre sono buoni i suoi rapporti con l’Occidente e ottimi quelli con la Turchia, ha ora l’opportunità di riaffermare un suo ruolo inter-arabo – a fronte di un Egitto prigioniero di una successione difficile e privo di reali prospettive di cambiamento – mentre, con l’influenza che i sauditi le consentono ora di tornare a esercitare a Beirut, si rafforza anche la sua posizione nei confronti di Israele.

Con una maggiore influenza in Libano, la Siria può tra l’altro premere più efficacemente su Gerusalemme per una ripresa dei negoziati per la restituzione del Golan e la pace fra i due paesi in alternativa alla difficile e pericolosa prospettiva di un eventuale nuovo scontro con lo Hizbollah. La fragilità della situazione politica libanese e della deterrenza fra Libano e Israele e i rischi che comporta dovrebbero convincere il premier israeliano Benjamin Netanyahu a riaprire il dossier del negoziato con Damasco. Non farlo vuol dire alimentare i rischi di un conflitto e le varie esche che potrebbero da questo conflitto portare a un conflitto regionale con l’Iran.

Che fare? Molti ribadiscono la necessità di risolvere i nodi all’origine delle tensioni regionali, ma il tempo non lo consente. Non è il momento della risoluzione dei conflitti, ma di una loro gestione. Gli Usa farebbero bene a dirottare le loro risorse diplomatiche verso il Libano, accantonando, se necessario, l’impegno nel quadrante israelo-palestinese che, del resto, si annuncia piuttosto inconcludente. Lo sforzo diplomatico, tuttavia, non dovrebbe tanto essere rivolto ad aggiornare e rafforzare il mandato di Unifil, quanto a creare le condizioni per avviare un nuovo negoziato siro-israeliano, magari (visto che la Turchia ha perso la necessaria credibilità in Israele) sotto il patrocinio diretto di Washington.

Roberto Aliboni – AffarInternazionali