
FA DISCUTERE IN ISRAELE LA STATUA DI SHARON IN COMA – Sta lì. Con un pigiama azzurro, in un letto con lo schienale rialzato. Una luce bianca che lo fa risaltare nella penombra d’una stanza d’ospedale. Le cannule dell’alimentazione, il monitor dell’elettrocardiogramma, la linea piatta dell’attività cerebrale. Silenzio e defibrillatori. Il volto non è gonfio: più o meno, è com’era quattro anni fa. Gli occhi sono aperti, fissano il nulla. E’ immobile come una statua. Perché è una statua: il monumento ad Ariel Sharon in coma. Una provocazione alla Maurizio Cattelan. Una cera che nessun museo Madame Tussaud oserebbe esporre. E che invece, fra qualche giorno, farà bella mostra di sé in una galleria d’arte di Tel Aviv. “E’ un’idea che almeno una volta qualunque israeliano ha avuto – dice la curatrice dell’esposizione, Renata Kishon – Compito dell’arte è raggiungere aree che possono essere state rimosse dal pubblico. Chi di noi non s’è mai chiesto come dev’essere diventato, in quel letto, l’uomo che una volta rappresentava Israele?”.
Sharon è il controverso leader mai morto davvero. L’uomo del Libano e del ritiro da Gaza, il falco che passeggiò sulla Spianata della Moschee e il realista che tentò di sganciarsi dagli estremisti Likud. Un capo che molta destra israeliana rimpiange e continua a ricordare. A febbraio, compirà 83 anni. Ma dal gennaio 2006, abbattuto prima da un ictus e poi da un’emorragia cerebrale, è un vegetale in fondo a un corridoio dell’ospedale di Tel Hashomer. Respira, nulla più. Proprio qualche settimana fa, è trapelata la notizia che i medici, dopo un lungo braccio di ferro, sarebbero riusciti a convincere la famiglia: se non a staccare la spina, come avevano suggerito già nel 2009, almeno a trasferirlo a casa. Nel Negev. Al secondo piano del Ranch dei Sicomori, il regno di “Arik” – come chiamavano Sharon quand’era generale – dov’è già sepolta la moglie. Il trasferimento è dovuto anche al fatto che i responsabili dell’ospedale reclamano, da tempo, le tre stanze riservate al paziente, ai familiari e al servizio di guardia. Lo scultore Noam Braslavsky ha battuto tutti sul tempo e, l’ex premier, l’ha bell’e sistemato nella galleria Kishon: “Ho saputo che tiene gli occhi aperti e che non ha perso peso – dice l’artista -, su queste indicazioni ho lavorato alla statua. E’ un’installazione, non solo una scultura. Un’opera che costringe chi guarda a prendere parte a un processo emotivo. Ho scelto Sharon perché è ancora un nervo scoperto della società israeliana. Rappresenta una gamma d’emozioni comuni a tutti noi. In fondo, è la metafora di questo Paese”.
L’ispirazione di Braslavsky non scalda i cuori del Kadima, il partito (oggi all’opposizione) che Sharon fondò poco prima di finire in coma. “E’ un’opera cinica – protesta una deputata della Knesset, Ronit Tirosh -, escogitata solo a scopi pubblicitatri. Una furbata che offende la memoria d’un grande statista”. Fra qualche giorno verrà inaugurata la mostra, ma anche i familiari – per bocca d’uno dei figli di Sharon, Omri – fanno sapere che non presenzieranno. C’è chi non è del tutto contrario all’iniziativa, però: “E’ un pezzo d’arte sicuramente unico – commenta Rannan Gissin, ex coinsigliere e amico storico di “Arik” -. Personalmente, ho molti problemi ad ammirarlo. Io preferisco mantenere il ricordo che ho di Ariel da vivo. Un uomo sempre attivo, nel bene e nel male. Uno che magari sbagliava. Ma certo, non un soggetto immobile: lui era un uomo d’azione”.
Fonte: Corriere.it