La consapevolezza dei “giovani precari”

Da oggi su Direttanews prende corpo una rubrica che avrà cadenza quindicinale – Tempi Modernissimi -, con commenti sulla società italiana, a cura di Giuseppe Ricotta, ricercatore di sociologia, Sapienza Università di Roma

Protesta indignati

TEMPI MODERNISSIMI – L’Italia non sta festeggiando nel migliore dei modi i suoi 150 anni di unità nazionale: alla profonda crisi economica si è aggiunta l’ennesima fase d’incertezza politica della cosiddetta seconda Repubblica. Le speranze per un Paese compiutamente “moderno” hanno oramai da un decennio lasciato il posto alle paure per un futuro che – tanto nelle chiacchiere da bar quanto nei dibattiti colti – ci si aspetta peggiore del presente. Sono emerse le ansie e le contraddizioni di una fase storica di incertezza e precarietà, che investe soprattutto – ma non solo – le generazioni più giovani, e a cui sono stati dedicati libri, film, canzoni e interventi politici a profusione.

Gli effetti miracolosi della flessibilità promessi nel corso delle ristrutturazioni del mercato del lavoro italiano degli anni ’90 si sono notoriamente tradotti in una maggiore e diffusa precarietà esistenziale: i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (gli ormai famigerati cococò) e i successivi contratti a progetto non assomigliavano affatto al lavoro con la L maiuscola che ha assicurato le generazioni precedenti, quelle “dei genitori”. L’incertezza è così divenuta il destino comune di questa generazione, investendone le aspettative di vita, di lavoro, gli affetti e l’eventualità di formare una famiglia propria, di fatto la possibilità di una piena partecipazione alla vita economica, politica e sociale del Paese.

La consapevolezza di un’esistenza precaria è, per usare un linguaggio sociologico, un tratto tipico della modernità avanzata: larghe fasce della popolazione italiana colgono e denunciano gli effetti negativi del precariato sulla nostra esistenza, a prescindere dalla possibilità, ancora offerta ai più, di consumare a profusione i seducenti prodotti della contemporaneità.

E la delusione dell’oggi è tanto più forte se raffrontata alle promesse degli anni ’90. Sono i governi tecnici del post-tangentopoli a dare forma alla retorica manageriale delle cosiddette tre E, “efficienza”, “efficacia” ed “economicità”, che si incarna nel 1994 nella figura dell’Imprenditore a capo della politica: far funzionare l’Italia come un’Azienda e chiudere per sempre con la partitocrazia, con la burocrazia, attraverso le privatizzazioni, il mercato, la meritocrazia, la felicità.

Autonomia individuale, accettazione delle regole del mercato, rifiuto di modelli gerarchici e autoritari di organizzazione, sia nel lavoro che nella vita politica e sociale, sono i tratti che secondo lo scienziato sociale Ronald Inglehart caratterizzerebbero le generazioni più giovani e colte delle società contemporanee postmoderne. In Italia, quindi, se i giovani cresciuti nel secondo dopoguerra avevano indirizzato le loro vite su valori materialisti quali l’accumulazione di ricchezza attraverso il lavoro e l’inclusione nei sistemi di welfare – anche grazie all’azione dei grandi partiti di massa e del sindacato –, l’assenza prolungata di guerre, lo sviluppo dello Stato sociale e la crescita economica avrebbero portato i loro figli a indirizzarsi verso valori post-materialisti ed ego-centrati: il desiderio di rassicurazione è sostituito dalla ricerca di libertà e di qualità della vita.

In questa lettura ottimistica della società post-moderna, che esalta la libertà individuale, manca un elemento che appare oggi chiaro, lampante: la crisi del welfare e le ristrutturazioni del mercato del lavoro ci hanno consegnato non tanto la promessa “libertà della flessibilità”, quanto una condizione di precarietà che per il sociologo statunitense Richard Sennet provoca nelle persone una “corrosione del carattere”. Lo stesso male che interessava, come ha scritto un altro sociologo, il francese Robert Castel, gli operai dell’800 che, privi della sicurezza sociale garantita dallo statuto del lavoro e dallo sviluppo del welfare, sperimentavano, oltre che povertà, demoralizzazione e dissociazione sociale.

Le generazioni che si sono affacciate al mercato dell’istruzione universitaria tra gli anni ’90 e i 2000, prendendo sul serio i principi del mercato e del merito, hanno accumulato livelli di laurea, master, tirocini e corsi d’Inglese – dentro Università che non hanno ancora trovato il bandolo della matassa di una condizione di riforma permanente, ma con sempre meno soldi e personale a disposizione. E così, iper-specializzati e a progetto, tra un corso di alta formazione e uno stage, i trentenni di oggi possono chiedersi a ragione se avrebbero fatto meglio ad aprirsi una pizzeria, in un Paese dove il gusto per il tempo libero e la movida è (ancora) abbastanza forte da preoccupare i novelli Sindaci sceriffi, che provano a regolamentarne i ritmi attraverso fantasiose ordinanze anti-tutto.

Nel frattempo, tuttavia, la consapevolezza della condizione precaria è diventata motivo di identità e di rivendicazione per fasce sempre più eterogenee del nostro Paese, nonostante non si scorga all’orizzonte chi e come sia oggi in grado di raccogliere questa sfida e rilanciare un progetto politico credibile e coerente con l’evoluzione della società italiana. L’attuale classe politica, difatti, a più riprese si è rivelata non solo incapace di comprendere, ma soprattutto indisponibile all’ascolto.

Potrebbe recuperare il tempo perduto seguendo, il 19 e 20 novembre prossimi, l’assemblea nazionale del “Comitato 9 aprile – il nostro tempo è adesso”, dove associazioni, reti, coordinamenti di lavoratrici e lavoratori precari, stagisti, disoccupati, studentesse e studenti proporranno a Roma le loro idee per costruire una nuova stagione oltre la precarietà.

Giuseppe Ricotta