L’ingegnere italiano rapito in Siria: provato psicologicamente, ma nessuna minaccia fisica

Un checkpoint di ribelli ad Aleppo, Siria (Getty Images)

Mario Belluomo, l’ingegnere italiano rapito in Siria insieme a due colleghi russi e liberato nelle ultime ore, ha raccontato al quotidiano “Il Giornale” il dramma del suo sequestro: “Non ci hanno trattato male e non ci hanno mai toccato; ma è stata molto dura psicologicamente. In questo mese e mezzo, la cosa più brutta è stata non avere notizie delle nostre famiglie“, ha detto l’ingegnere in un’intervista telefonica da Damasco.

L’Italiano e di due russi sono stati rapiti da un gruppo di ribelli siriani e rilasciati dopo aver ottenuto in cambio il rilascio di alcuni guerriglieri. Le trattative per la liberazione degli ostaggi sono state condotte principalmente dal ministero degli esteri di Mosca.

Belluomo ha descritto le fasi concitate del sequestro, avvenuto a metà dicembre sulla strada tra la città portuale di Tartus e Homs: “Quando nel buio siamo stati fermati da un gruppo di uomini armati abbiamo pensato che si trattasse di militari governativi”, ha detto l’ingegnere, originario della provincia di Catania. “Ci hanno fatto scendere dalla macchina e ci hanno portati con loro. Da quel momento – ha spiegato -, siamo sempre rimasti chiusi in una stanza. Per un mese e mezzo, non abbiamo fatto altro che dormire ed aspettare questa sospirata liberazione“.

“I rapitori – ha raccontato Belluomo – ripetevano che la Siria non è un Paese democratico e che non bisogna lavorare per il suo governo” (i tre ingegneri sono dipendenti dell’acciaieria siriana Hmisho), “ma non ci hanno mai minacciato“, ha assicurato.

“Abbiamo saputo che stavano per liberarci dai nostri sequestratori”, ha continuato l’ingegnere. “Io non parlo l’arabo ma uno dei due russi con cui sono stato preso è mezzo siriano. Sabato i nostri carcerieri glielo hanno raccontato e lui mi ha subito spiegato che all’indomani, domenica, ci avrebbero liberati”. Quindi, ha proseguito il racconto: “Ci hanno incappucciati, messi in macchina e portati in un posto distante più o meno un’ora dalla nostra prigione. Lì ci aspettava l’intermediario. Quando siamo saliti in macchina con lui e abbiamo visto che gli uomini armati non ci seguivano, abbiamo capito che la nostra prigionia era veramente finita”, ha concluso Belluomo.

Redazione

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