Tra “Una separazione” e “Il passato”, avrebbe dovuto esserci un altro film. Cos’è successo?
Effettivamente, durante un soggiorno a Berlino dopo “About Elly”, avevo scritto un’altra sceneggiatura. Poi, ho realizzato “Una separazione” e il mio distributore francese, Alexandre Mallet-Guy, mi chiese di leggere quella sceneggiatura. Gli piacque e manifestò il desiderio di produrre il film in Germania o in Francia. Dopo una serie di viaggi, scelsi Parigi e mi misi a lavorare su quel progetto. Un giorno, mentre eravamo in un bar a chiacchierare, all’improvviso dissi che avevo in mente un’altra storia. Avevo solo una sinossi, ma raccontandola mi ero reso conto che qualcosa stava iniziando a cristallizzarsi, a prendere corpo e che un altro racconto mi stava venendo incontro. E piano piano ci spostammo verso questa nuova storia che sviluppai e nel giro di poco tempo arrivai al primo trattamento. È così che “Il passato” è nato. E Parigi aveva interamente il suo ruolo: quando si vuole fare un film che tratta del passato, bisogna iscriverlo in una città come Parigi che respira il passato. Non avrei potuto trasporre la storia ovunque.
Eppure la Parigi storica non è presente nel film
Sono stato molto attento a non abusare della dimensione storica dell’architettura di Parigi e a non fare un film turistico. Nel giro di poco tempo ho deciso che la casa della protagonista, dove si svolge una grande parte della narrazione, si sarebbe trovata in periferia. Parigi è presente, ma in modo discreto, sullo sfondo. Il pericolo che incombe su qualunque cineasta decida di realizzare un film al di fuori del proprio contesto d’origine è di metterci le prime cose che catturano il suo sguardo. Io ho volutamente fatto il percorso contrario: poiché l’architettura di Parigi mi affascina, ho scelto di superarla per accedere a qualcos’altro.
Ma come si svolge la scrittura, come si costruisce la storia?
Di fatto le mie storie si scrivono sempre in modo non lineare. Non ho un punto di partenza e un punto di arrivo. Ho sempre diverse storie che prendono forma in modo indipendente e che finiscono col convergere verso una situazione comune. In questo caso, avevo la storia di un uomo che si reca in un’altra città per espletare le formalità del divorzio poiché è separato da sua moglie da qualche anno. E avevo la storia di un uomo la cui moglie è in coma e che deve occuparsi da solo di suo figlio. Questi frammenti di storia si arricchiscono in modo parallelo per arrivare a convergere verso una situazione unica. La mia scrittura è intuitiva, ma non appena ho una sinossi comincio a farmi delle domande sulle poche cose che so della storia. Poiché so che quest’uomo arriva per divorziare, mi chiedo: “Perché se n’è andato quattro anni fa?” E se va nella casa di questa donna: “Cosa avviene in quella casa?”. Sono talmente tanti i quesiti che emergono da un piccolo testo che darvi una risposta ti porta a costruire l’intero racconto.
In che modo l’osservazione della vita francese ha nutrito la sceneggiatura?
Ho riflettuto molto sull’aspetto delle differenze: cosa cambierebbe se la storia si svolgesse in Iran? Nei miei film, i personaggi si esprimono spesso in modo indiretto. È una formula comune nella mia cultura ed è anche un espediente drammatico a cui sono ricorso spesso. Ho notato che questa modalità è più rara in Francia. Naturalmente è un discorso relativo, ma in generale i francesi si esprimono in modo più diretto. Dovevo dunque adattare lo sviluppo dei miei personaggi francesi a questo nuovo parametro. Ed è stato un processo piuttosto delicato e lungo da applicare alla scrittura.
E curiosamente è il personaggio iraniano a far parlare gli altri
In effetti è una specie di catalizzatore, una persona che mette gli altri in una disposizione d’animo incline alla parola, in cui affiorano cose che non sono state dette da molto tempo. Ma penso che sia un atteggiamento che ha inconsapevolmente, che non sia una scelta volontaria da parte sua. Per me è stata una vera linea di condotta, ho voluto fortemente che i miei personaggi non fossero definiti dalla loro bandiera o dalla loro nazionalità. È la situazione a determinare il loro comportamento. E in una situazione di crisi, le differenze si attenuano.
Uno dei suoi attori dice che l’idea di questa storia le è venuta vedendo una persona in coma…
Non è andata proprio così. Sono andato a vedere dei pazienti in coma per preparare il film. Pur non avendo mai fatto esperienza diretta di questa condizione, da sempre associo subito l’idea del coma a una via di mezzo, a un dubbio: siamo nella vita o nella morte? Una persona in coma può essere considerata morta o è ancora viva? Tutto questo film è costruito su questo concetto di dubbio, sulla nozione di via di mezzo. I personaggi si trovano costantemente di fronte a un dilemma, sono a un bivio tra due percorsi. In “Una separazione”, la situazione in cui si trova il protagonista è piuttosto comune ma complessa: deve scegliere tra il benessere di suo padre e quello di sua figlia. In “Il passato”, la questione è un po’ diversa: bisogna privilegiare una certa lealtà verso il passato o rinunciarvi per proiettarsi verso il futuro?
Questi dilemmi sono ancora più profondi a causa della complessità della vita di oggi?
È molto probabile. Mi sembra che abbiamo la tendenza a considerare indefinito il futuro, perché ci è sconosciuto. E tuttavia il passato mi pare ancora più opaco. Oggi conserviamo delle tracce del nostro passato, dovrebbe esserci più vicino di quanto non lo fosse una volta. Eppure, malgrado le fotografie o le e-mail, il nostro passato è diventato ancora più oscuro. E oggi la vita forse tende a volersi proiettare in avanti ignorando il passato. Ma l’ombra del nostro vissuto continua a pesare su di noi e a riportarci indietro. Mi sembra che questo sia vero in Europa come nel resto del mondo. Malgrado tutti i nostri tentativi di catapultarci verso l’avvenire, il peso degli eventi passati continua a farsi sentire sulle nostre spalle.
Come ha scelto Bérénice Bejo?
Ho visto Bérénice per la prima volta durante un viaggio negli Stati Uniti dove lei si stava occupando della promozione di “The artist”. Mi ha subito dato l’impressione di essere una persona espansiva e autentica. È una di quelle persone con cui è facile stabilire subito un rapporto, uno scambio. La sua interpretazione in “The artist” mi ha convinto per l’intelligenza della recitazione. Sono due dimensioni assolutamente fondamentali per farmi venire voglia di lavorare con un attore: bisogna che sia innanzitutto una persona scaltra e intelligente e poi deve lasciar trasparire sullo schermo un’energia positiva. Una persona avvincente, con cui lo spettatore abbia voglia di trascorrere un po’ di tempo.
Bérénice racconta che il primo giorno delle riprese ha cercato qualcosa sul suo volto. Che cosa?
Il dubbio, che è molto presente in Marie. Non è un tratto distintivo della personalità di Bérénice che non è una donna assillata da dubbi. Ma fin dalle prime prove mi ha subito dimostrato che sarebbe stata capace di incarnare quello stato d’animo.
Il personaggio di Marie è quello che provoca le situazioni che fanno andare avanti le cose…
Quanto meno è la più determinata nel voler voltare pagina e non sovraccaricarsi del passato. Ma da qui a sapere se riuscirà a farlo o no… I personaggi maschili sono più imbrigliati di lei nel passato. L’ultima volta che vediamo Marie nel film, viene verso di noi, verso la macchina da presa, Ahmad è dietro di lei e lei gli dice: «Non voglio più tornare indietro». E volta le spalle al passato, alla macchina da presa e quindi a noi spettatori. Guadagna un vantaggio anche rispetto agli spettatori. È in questo spirito che possiamo dire che si tratti del personaggio più progressista. Va’ a sapere perché in tutti i miei film sono sempre le donne a rivestire questo ruolo. Come in “Una separazione”…
Quali sono le doti di Tahar Rahim?
Ho visto “Il profeta” in Iran e ho subito capito che non è un attore come gli altri, che ha una capacità e una ampiezza nella recitazione alquanto eccezionali ed è in grado di interpretare ruoli molto complessi. Per questo ho deciso di sceglierlo. Una delle caratteristiche di Tahar, che è stata molto preziosa per me nel lavoro che ho potuto fare con lui, è la sua parte infantile. È una persona che ha conservato in sé, in un modo molto presente, qualcosa delle emozioni e delle reazioni dell’infanzia.
Come ha scelto Ali Mosaffa?
Ali ha una particolarità come attore e molto probabilmente come uomo: il suo volto e il suo essere trasmettono un naturale contenimento, dà immediatamente l’impressione di essere un uomo che possiede un mondo interiore ricco di cui lascia trasparire pochi aspetti. È una persona che attira gli altri. Viene voglia di sapere più cose di lui e mi sembra che questo tratto si sia sviluppato nel personaggio di Ahmad quando abbiamo scelto Ali per interpretarlo. Inoltre, avevamo bisogno di avere un attore professionista iraniano in grado di parlare francese e questo limitava molto la nostra scelta. Quando ho convocato Ali, ho fatto fatica a credere che sarebbe riuscito a padroneggiare il francese nel giro di poche settimane di preparazione. Ma è stato impressionante. Tutti coloro che sono stati testimoni dei suoi progressi in francese dal suo arrivo a Parigi al primo giorno sul set hanno ammirato profondamente il suo lavoro.
In una versione della sceneggiatura, il personaggio di Ahmad aveva un legame con il cinema, come se conservasse ancora la funzione di dialoghista degli altri personaggi…
In effetti, in una delle prime stesure della sceneggiatura, avevo immaginato che potesse essere legato al mondo del cinema. Ma poco a poco mi sono reso conto che non volevo che avesse un mestiere, volevo che si sapesse poco di quest’uomo. È un uomo che suscita una grande curiosità nelle persone, vorremmo conoscerlo meglio, sapere da dove viene, ma alla fine non gli viene mai data l’occasione di presentarsi in modo più preciso. Anche quando cerca di giustificare la sua assenza e il suo ritorno in Iran, il personaggio che divide la scena con lui non glielo lascia fare. Forse ci vorrebbero dei film, dei documentari o delle fotografie… Non saperlo significa lasciare tutte le possibilità aperte. In ogni caso penso che svolga uno di quei mestieri che non si possono fare bene lontano da casa propria e che questo sia uno dei motivi per cui lascia la Francia.
È più intellettuale di Samir?
Ahmad è un uomo del fare. È una di quelle persone che, quando arriva da qualche parte, ha bisogno di riparare qualcosa, in questo caso il lavandino o la bicicletta, di mettersi a cucinare, ecc. Sono persone che si sentono molto a disagio quando escono dal loro elemento, quando sono altrove, perché nell’altrove si è in qualche misura condannati all’immobilità e all’inattività. Per Ahmad, l’inattività è una sofferenza, quindi capiamo molto bene che sia potuto precipitare nella depressione a causa di questa passività imposta dal contesto.
Come ha diretto la giovane Pauline, il cui ruolo è uno dei cardini del racconto?
Ho visto molte ragazze della sua età prima di scegliere Pauline. E l’ho scelta con un provino filmato dal quale ho subito capito che avrebbe avuto la forza necessaria al ruolo. La chiave della sua incarnazione del personaggio era la sua motivazione. Come Ahmad, Lucie è un personaggio misterioso, riservato. Il punto di contatto tra loro è il carattere introverso. Anche nella vita reale, lo sguardo di Pauline è portatore di un mistero. Benché nella sceneggiatura Lucie non sia figlia di Ahmad, per me era essenziale che vedendoli sullo schermo si avesse la sensazione di una filiazione, l’impressione di avere davanti una figlia e un padre. Tra loro doveva esserci una connivenza. È lei che sente maggiormente la mancanza di Ahmad dopo la sua partenza. Non ha perso solo il marito di sua madre, ha perso anche un padre.
François Truffaut diceva che al cinema i bambini non sanno mentire e offrono una verità diversa da quella degli attori adulti. Condivide questo pensiero?
Sono arrivato alla conclusione che sono incapace di fare un film in cui non ci siano bambini. Malgrado sia difficile lavorare con loro, mi sembra che la loro presenza apra l’atmosfera del film alle emozioni e agli affetti. Infondono sincerità. Infatti, in tutti i miei film i bambini non mentono, se non sotto pressione degli adulti.
Nel film, i bambini sono al tempo stesso testimoni e vittime degli adulti?
Nel film c’è un bambino che nessuno vede, quello che porta in grembo Marie. Prima ancora di nascere, il suo destino è determinato da altre persone. Mi domando, quando quel bambino nascerà, cosa potranno dirgli gli altri del suo passato, degli eventi che hanno preceduto la sua nascita.
Che differenza c’è tra girare un film in Iran e girarlo in Francia?
Per me, non c’è una grande differenza: ho lavorato allo stesso modo in Francia e in Iran. In Francia ovviamente ci sono più mezzi e il cinema è visibile in quanto industria. In Iran, il cinema è una congiunzione di creatività individuali, mentre qui la creatività è più collettiva.
“Una separazione” era un film girato con la macchina da presa a spalla, in questo la macchina da presa è molto più stabile. Cos’ha comportato questo cambiamento di stile?
Una volta che la storia ha preso forma e che sono andato a vedere gli ambienti, ho capito che questo racconto esigeva maggiore stabilità, una macchina da presa più spesso fissa, meno nervosa. “Una separazione” era un film in cui tutti gli eventi avvenivano in uno stesso luogo e in uno stesso momento, sotto l’occhio dello spettatore. In “Il passato” vediamo solo le ricadute di eventi trascorsi, i loro effetti sull’interiorità dei personaggi. E poiché si tratta di un film più interiorizzato, la macchina da presa doveva essere meno mobile.
Lei è un moralista?
Non mi atteggio a moralista, ma è innegabile il fatto che ci siano dei quesiti morali in questo film. Ci sono anche altri approcci possibili. Uno può scegliere una chiave di lettura sociologica o psicologica. Ma è evidente che molte situazioni possono essere esaminate da un punto di vista morale.
Intervista di Silvia Casini