Quando ha incontrato Asghar Farhadi la prima volta?
L’ho visto la prima volta quando è venuto a parlare della sceneggiatura a Leila Hatami, mia moglie. In precedenza, avevo seguito la sua carriera, avevo visto i suoi film e conoscevo il suo lavoro. Ci conoscevamo come due professionisti del cinema iraniano.
Qual è stato il suo percorso?
Sono ventiquattro anni che lavoro come attore nel cinema iraniano. Ho esordito in modo del tutto casuale. Mentre mi annoiavo in università, qualcuno mi fece una proposta. Ho avuto voglia di cambiare aria e mi sono ritrovato a fare l’attore. Il primo film che ho interpretato è stato un film commerciale di terz’ordine. A partire dal mio terzo film, “Pari”, diretto da Dariush Mehrjui, fare l’attore ha assunto un altro significato. Fino a quel momento, mi ero accontentato di divertirmi. L’incontro con Mehrjui mi ha aiutato a prendere sul serio il cinema.
Come le ha parlato di questo progetto Asghar Farhadi?
Ho superato diversi provini. A un mese dall’inizio delle riprese non ero ancora sicuro di aver ottenuto la parte. Bisognava saper parlare francese, era una condizione sine qua non. La cosa buffa è che continuo a non ritenermi capace di parlare francese. Ma è una lingua che ho sempre sentito parlare. Una volta avevo persino iniziato a studiarla, per qualche tempo, poi l’avevo abbandonata e di nuovo ripresa e così via. Quindi per me il francese era diventato una sorta di malattia cronica di cui non riuscivo a liberarmi, un problema costante! Per di più, mia moglie parla francese, in particolare con i nostri figli a casa. Quindi, da qualche anno, il francese occupa un posto sempre più grande nella mia vita.
Recitare in francese ha modificato in qualche modo la sua interpretazione?
Ci ho riflettuto molto. Avevo sentito un’osservazione fatta da Abbas Kiarostami a proposito del film che ha girato in Giappone con degli attori di cui non comprendeva la lingua. Spiegava che questo fatto lo aveva ovviamente privato di uno strumento registico essenziale, ma gli aveva lasciato come unico criterio lo sguardo e la recitazione stessa dell’attore. Non si faceva più ingannare dal testo e percepiva a un livello profondo la qualità dell’interpretazione. Quest’idea può essere valida anche per un attore. Quando recita in un’altra lingua, perde l’arma della sua lingua madre, a cui spesso si appoggia per compensare alcune debolezze con un’inflessione del tono. Ricorre a una padronanza acquisita fin dall’infanzia e la utilizza come una stampella per colmare determinate lacune nella recitazione. Quando è privato di quest’arma, può solo fare ricorso agli elementi primari della recitazione, come per esempio lo sguardo.
Come definirebbe Ahmad?
È uno straniero in Francia. Malgrado abbia familiarizzato con quella cultura e viva in quel paese, poco importa se da 4 o 15 o 20 anni, ai miei occhi resta in una posizione di straniero. Ed è anche un personaggio che, come molti orientarli forse, si esprime in modo indiretto. Le sue reazioni devono quindi sempre essere percepite e interpretate come tali. La differenza che esiste nei comportamenti degli iraniani e dei francesi può dare origine a molti malintesi. Quanto agli altri tratti della sua personalità, non è nelle mie abitudini cercare di capire tutta la complessità di un personaggio prima di incarnarlo.
Insieme ad Asghar Farhadi ha inventato un passato ad Ahmad? Il suo arrivo in Francia la prima volta, come ha conosciuto Marie.
Fa parte del metodo di Asghar. Parla del passato dei suoi personaggi, probabilmente gli è necessario immaginarlo nella fase della scrittura. Per parte mia, non ci tengo a sapere tutto del mio personaggio o a fare domande in merito allo sceneggiatore o al regista. Cercare di spiegare il comportamento di un personaggio ricorrendo al suo passato può avere come unico obiettivo la risoluzione delle sue contraddizioni presenti. Ora per me le contraddizioni devono essere accettate per riuscire a rendere reale un personaggio. Cercare di farle sparire mi sembra controproducente. Voler comprendere a qualsiasi costo il comportamento di un personaggio non aiuta un attore a incarnare il ruolo.
Il personaggio di Ahmad ha la funzione di aiutare gli altri a parlare, a rivelare delle cose?
Quello che possiamo dire di Ahmad è che tiene troppo a quelle persone per restare indifferente ai loro problemi o per non cercare di risolverli. Ma io ho la sensazione che non sia per natura il genere d’uomo che si lascia coinvolgere a quel livello nella vita degli altri. Non si sente in grado di risolvere i problemi delle altre persone e si lascia invischiare solo per via dell’affetto che prova per loro. È una delle contraddizioni del personaggio: se si interessa tanto alle sorti di questa donna, di Marie, come ha potuto lasciarla? Questo fa parte della sua personalità e in questo senso mi sembra emblematico di un’intera generazione in Iran: sono persone sincere che si interessano agli altri e vorrebbero aiutarli, ma vivono in un’epoca che non li incoraggia. Sono in una doppia tensione: desiderano aiutare gli altri, ma fino a che punto? Cercano di preservare la loro vita, ma l’altruismo e la rinuncia sono stati inculcati loro fin dall’infanzia.
Ahmad si esprime con molta dolcezza…
Il fatto di parlare lentamente forse è legato al francese. Ma anche nella mia vita reale, quando parlo in farsi, ho la caratteristica di parlare dolcemente e lentamente. La lentezza fa parte del mio modo di essere, ma è anche una reazione all’ambiente. Trovo che i francesi parlino molto veloce. Quando mi trovo in un gruppo di attori che hanno una certa omogeneità il mio carattere mi impone di distinguermi da loro. Quindi, più noto che parlano in fretta, più mi sento incitato a parlare lentamente, anche se conosco bene il testo e sarei capace di dirlo velocemente.
Il suo personaggio è il portavoce di Asghar Farhadi? Porta lo sguardo di un iraniano su una coppia francese, per esempio?
Non credo che Asghar Farhadi auspichi di avere un portavoce nel film. Da come conosco il suo percorso e il suo lavoro, farebbe di tutto per evitare di avere un personaggio che lo rappresenti o di fare un film che possa essere percepito come una sorta di manifesto. Detto questo, è evidente che essendo il mio personaggio iraniano, immagino che ci sia proiettato maggiormente in lui.
Come è stato girare con degli attori francesi?
Ho trovato un’atmosfera molto amichevole. Non ho mai avuto l’impressione di lavorare con degli stranieri. Non so se avvenga sempre così, ma con questi attori, con Bérénice, Tahar, Pauline, mi sono sentito davvero appoggiato. Spesso, quando parlavo male o sbagliavo una battuta e mi veniva segnalato l’errore, Bérénice interveniva relativizzando l’incidente, dicendo che il mio accento era «grazioso». Percepivo realmente che i miei colleghi vegliavano su di me. E devo dire che è stato molto piacevole per me sentire nel cinema francese quella solidarietà tra colleghi.
Un set francese è molto diverso da un set iraniano?
I principi sono molto affini. Sicuramente in Iran abbiamo preso molte cose dal cinema francese. Ma devo dire che in Francia c’è un modo di lavorare più formale, più consistente.
“Il passato” è una storia francese o iraniana?
La riuscita di questa sceneggiatura dipende dal fatto che è impossibile dire se si tratti di una storia iraniana o di una storia francese. È una storia umana.
Intervista di Silvia Casini