
Quanto vale, oggi, dopo il perentorio – 0,2 % del Pil certificato dai dati Istat, quel 40,8 % di consensi che il premier Matteo Renzi fece scrivere a caratteri cubitali dietro di sé – come monito per se stesso ma anche per i dissidenti interni – all’assemblea del PD di maggio?
Non lo sappiamo. Ma quel 40 % è ormai dietro di lui, non avanti. Perché quello europeo era un voto sulla fiducia – e sull’apparente mancanza di alternative – non un riconoscimento per qualcosa che era stato fatto. Le promesse del premier, a sei mesi dall’insediamento dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, sono ancora lontane dal compiersi.
La recessione su base annua che si assesta pericolosamente sul – 0,3% non è un monito: dopo 12 trimestri di sofferenza le difficoltà dell’Italia sono il risultato di una drammatica superficialità. Il risultato negativo era atteso. L’aggravarsi delle condizioni economiche del Paese fa comprendere l’errore di strategia e l’inattesa perdita di tempo da parte di un premier che aveva fatto della tempestività il suo tratto stilistico, al punto che il benservito al Governo Letta si basava su un’accusa di stallo che l’allora inquilino di Palazzo Chigi non riuscì a dimostrare infondata. “Cambiamento” e “cambiare verso all’Italia”: le parole usate come un mantra non sono riuscite a cambiare una realtà che rimane inchiodata ai numeri. Le critiche di Bruxelles, della stampa estera e dei nostri “editorialisti“ – a cui pochi giorni fa il premier attribuiva non meglio precisate responsabilità, neanche ipotizzando di avere le proprie – non hanno fatto altro che constatare le scelte del primo semestre Renzi.
La casa bruciava e l’Esecutivo non ha pensato a spegnere l’incendio agendo “di corsa” sul cuneo fiscale, sulla detassazione per le imprese, sui tempi della giustizia civile e il tempestivo pagamento dei debiti della PA passando per il rilancio dell’edilizia e il sostegno alle pmi. Erano questi, non per intuito ma per evidenza, i passaggi obbligati per evitare il disastro. L’ex sindaco ha detto di voler fare tutto subito, quasi subito, per poi andare a intestardirsi sul nodo istituzionale. Riforme che andranno a regime fra 1000 giorni, non prima, tanto è il tempo di vita che l’Esecutivo si è dato per “cambiare l’Italia”.
Se c’è una strategia dietro questa scelta è tenuta ben nascosta e non sembra coincidere con gli intessi del Paese, sempre che non si voglia affermare che la pretesa semplificazione dell’assetto istituzionale fra tre anni sia necessaria a quelle iniziative urgenti, di profilo economico che devono essere fatte ora. Se è così l’Esecutivo dovrebbe spiegare. Di corsa, se preferisce, tra un viaggio e l’altro, tra un tailleur e un altro, fra occhi azzurri e riccioli rinascimentali, tra un intervista e una conferenza stampa, dove si parla molto e non si spiega nulla. L’entourage del premier ha tentato di dire che i lavori parlamentari sulle riforme sono “chiesti dai cittadini” che vogliono il cambiamento. E’ un’approssimazione imparentata con la menzogna. Il 40% di maggio chiedeva all’Esecutivo di uscire subito dalle secche dell’immobilismo economico, dalla tassazione asfissiante, di agire sul taglio agli sprechi. Non chiedeva un Senato di nominati scelti tra i rappresentanti della Regioni. Non lo chiedeva Bruxelles. La maggioranza invece ci sta lavorando a tempi serrati, togliendo spazio e risorse ad altri provvedimenti, a dispetto di un Pil in terreno negativo. Nè l’Esecutivo si è preso la briga di spiegnare perché il Senato non debba essere elettivo e perché – piuttosto che sancirne il declino – non abolirlo come molti, anche nella maggioranza, chiedevano. Ma non c’è tempo per spiegare, evidentemente, perché bisogna “cambiare verso” ad un’Italia che sprofonda e non capisce.
Quello che si capisce, per ora, è che le riforme istituzionali – volute veramente solo dal premier, dal Ministro Elena Boschi e da pochissimi altri nel PD – sono sostenute per disciplina di partito, opportunismo o ignavia. Il prezzo da pagare è, in termini politici, più alto di quello che appare. C’è un PD frastornato e ammutolito che si vede trascinato dal premier a trattare le riforme con il nemico di sempre, quel Silvio tenuto in vita dal Patto del Nazareno al di là di ogni logica politica. E’ una scelta che entra in collisione con vent’anni di storia del PD segnato – a torto o a ragione – da un antiberlusconismo che è stata la cifra identificativa della base e di buona parte della dirigenza. Un atteggiamento che può essere rivisto e capovolto certo, ma non può essere aggirato dalle iniziative di un uomo solo su un campo cruciale come quello delle riforme istituzionali. La semplificazione non è una scelta senza prezzo. Tuttavia sembra una costante in questi primi mesi da premier: Renzi ha ridotto ad equazione elementare anche il problema dei consumi: con 80 euro era certo di arrivare a + 0, 8 % di Pil.
L’asse con Berlusconi posto da Renzi come priorità assoluta – al punto da fissare il nuovo incontro con il leader di FI proprio ieri giorno dei dati Istat – sembra ancora una volta una risposta troppo semplice a problemi complessi, fuori e dentro il partito, problemi che la recessione non aiuterà a nascondere. E non minori malumori agitano Forza Italia che vede nel sostegno al premier una perdita di identità politica più grave dell’interdizione dai pubblici uffici del leader. Il problema è acuito da una costatazione desolante: Silvio; prossimo agli 80 anni di età, condannato, inelegibile, non sembra intenzionato a lavorare ad una successione. Chiede a Renzi ossigeno con nessun altro scopo se non quello di durare – a dispetto di tutto e di tutti. Semplifica, anche lui. Silvio per costrizione, Matteo per scelta. E intatto si fa largo un intreccio di rancori, tra PD e Forza Italia, che sembrano davvero troppi e troppo profondi per durare 1000 giorni mentre l’Europa continua a dirci che in recessione quei mille giorni saranno accompagnati dal giornaliero incrementarsi del debito pubblico. Un altro trend, tra i tanti, a cui il premier non è riuscito a cambiare verso.
Già, l’Europa. Era qui che il premier doveva e poteva intestardirsi, altro che Senato. Si è presentato a Strasburgo sull’onda del successo elettorale del 25 maggio. Nessuno tra i leader europei ha vinto quanto e come lui. Ha iniziato di gran carriera pungendo l’establishment di Bruxelles e i banchieri tedeschi con battute taglienti e repliche stizzite. Ha parlato della necessità di porre un freno all’austerity e alla tecnocrazia; ha fatto discorsi di ampio respiro sui “destini comuni”. Ha difeso il primato della politica. Dopo tutto questo, diligentemente e senza neanche provare a lottare, ha votato Jean Claude Juncker alla Presidenza dell’Esecutivo Ue secondo i desideri di Bruxelles e Berlino. Di viaggi a Londra neanche a parlarne. Non era solo, ha lasciato soli gli altri. Contropartita per tanta fedeltà a Berlino? Nessuna. Il premier è certo che la Mogherini verrà eletta Ministro degli Esteri Ue. Un’altra previsione presto chiamata alla prova dei fatti. Renzi ancora una volta ha semplificato, riducendo il problema dei rapporti con l’Europa ad uno stizzito scambio di battute.
Ristabilire il primato della politica, come è andato dicendo il premier, avrebbe imposto ben altro: chiedere che l’accordo su Juncker non fosse disgiunto dall’avvio di un percorso di revisione dei trattati: è l’idea di Pedro Sanchez astro nascente del partito socialista spagnolo. Renzi ne sarebbe probabilmente uscito sconfitto ma non umiliato. Alla fine avremmo guadagnato un leader in grado di ricompattare il fronte interno e capace di arrivare, al termine di un percorso di riforme economiche, a convergenze si novi assetti costituzionali, con esiti più ponderati e meno laceranti di quelli odierni.
Quando un leader basa la scelta delle sue priorità d’intervento su valutazioni che si rivelano errate deve essere disposto ad un’autocritica. Se diventa premier a 39 anni è un enfant prodige, forse: certo inesperienza e narcisismo rischiano di vanificarne le pur straordinarie attitudini. Ma l’inesperienza potrebbe non essere un pericoloso limite se egli è capace di trarre insegnamenti dai propri errori. I fatti ci dicono che il premier non è un prodigio. La scelta delle priorità ha confermato che è inesperto: guidare l’Italia non è amministrare una città, per quanto prestigiosa come Firenze. Il messaggio con cui ieri si è rivolto ai parlamentari della maggioranza, senza l’ombra di un’autocritica, fa pensare che il deficit di esperienza e l’eccesso di avventatezza non saranno facilmente controbilanciati dalla riflessione, né compensati da qualche sporadico cambio di rotta.
Subito dopo l’incarico il premier diceva che bisognava comprendere il dolore e le difficoltà del Paese reale. Ieri con un Pil a – 0,2 % si ha avuta la sensazione che sia stato lui, il premier, a non comprendere, a rimanere lontano dalla realtà. Dopo sei mesi, tra un annuncio di riforma ed un altro, tra mille fronti aperti e nessuno chiuso, sembra che l’ex sindaco sia stato rapido solo nell’umiliare Fassina, Cuperlo e Mineo, nel rispondere stizzito a Weber ,Weidmann e Schäuble, nell’ostentare noncuranza per le dimissioni annunciate da Cottarelli. Tutto questo mentre il Paese, quello vero, nell’agenda sua e del Ministro Boschi – bellissima, certo, e questo potrebbe essere un problema – doveva attendere le nuove architetture del Senato. Ce ne faremo una ragione, direbbe Renzi – e potremmo provare a dimenticare questi sei mesi senza risultati e senza senso se non fosse che a Bruxelles bisogna tornare per presentare i conti a “burocrati e tecnocrati” inutilmente offesi dal premier. Ma a Bruxelles e Berlino il ragazzo impetuoso lo hanno capito subito e lo lasciano parlare. Perchè alla fine decidono loro.
ADB