Potrebbe già essere un Dead Man Walking, un morto che cammina, come si usa dire negli Stati Uniti per indicare le persone la cui sorte è segnata. A cinque settimane dalla diffusione del brutale omicidio di James Foley il 19 agosto e a poco più di tre dalla macabra replica con Steven Sotloff l’Fbi sa chi è l’assassino dei due reporter americani. «L’agenzia ritiene di aver identificato il militante visto nei video della decapitazione» ha affermato il numero uno dell’Intelligence americana, James Comey. L’Fbi, ha detto, potrebbe presto identificare altri militanti apparsi nelle immagini.
Il nome del miliziano che sfidò il Presidente Obama e gli Stati Uniti non è stato reso noto. Ma è noto, assicurano all’Fbi: chi deve sapere sa. Dopo aver individuato l’accento, la città, il luogo del delitto – le alture vicino al-Raqqa, in Sira, roccaforte degli jihadisti dove si sono compiuti i delitti – si sarebbe dunque giunti con ragionevole certezza a “jihadi John“come venne chiamato il miliziano. Un soprannome attribuito subito, che nascondeva a malapena l’impazienza di saperne di più, il desiderio di strappargli quel cappuccio nero e di guardarlo, per tentare di capire una violenza che rimarrà comunque ignota, immersa in un buio profondo e impossibile da comprendere. Ed è forse meglio così, perché capire qualcosa di quella violenza potrebbe voler dire che quella ferocia è, in parte, anche nostra.
Ma questo è un pensiero che già appartiene al domani. Quello che sappiamo oggi è che trentacinque giorni dopo la brutale, vile, messinscena dell’”Uomo Nero” potrebbe essersi rivelata inutile: l’identità del carnefice che moltiplicava in faccia al mondo l’orrore dell’assassinio di un innocente, ucciso come un capretto sull’altare di pietra dell’odio religioso, potrebbe essere presto conosciuta da tutto il mondo.
L’Fbi ha ormai il nome del killer di Foley così come il mondo sa che il pericolo rappresentato dalla Jihad non può essere più ritenuto un problema locale. L’Isis non è solo un incubo comparso nel cammino di reporters e cooperanti che sfidando la sorte hanno ritenuto di poter ragionevolmente addentrarsi in Medio Oriente e trattare la follia degli jiahdisti in Siria, l’Iraq o l’Algeria come un’incognita tra le tante, una variabile da studiare a mente fredda. Chi si spinge ora in quella polveriera senza considerarla terreno di morte e orrore rischia di diventare lui freddo, e la sua testa di finire altrove.
L’infezione della violenza non è rimasta lontana dall’Occidente: Scotland Yard ha arrestato ieri nove persone sospettate di pianificare attività terroristiche riconducibili al fondamentalismo islamico. L’Intelligence occidentale ritiene le stazioni delle metropolitane luoghi di probabili attacchi jihadisti a Stati Uniti e Francia. E oggi, mentre riferiva dell’identificazione da parte dell’Fbi dell’assassinio dei reporters, James Comey si è detto poco sicuro che i piani terroristici di Khorasan – la cellula di al Qaida che sta progettando attentati terroristici negli Stati Uniti e in Europa – siano stati scongiurati dai raid aerei in Siria.
Ma, nonostante tutto, oggi sapere che “jihadi John” ha un nome restituisce quell’ombra all’orrore del quotidiano, gli strappa via l’aura di nera inafferrabilità per riconsegnare la sua violenza nell’ordinario perimetro di un fragilità che ha nascosto sé stessa in un simulacro cupo e puerile. La lotta contro questi individui che si fingono ombre è appena iniziata. Durerà anni, forse. Ma è importante sapere che dietro quelle sciarpe nere si nasconde il volto di persone qualsiasi, frutto di violenza e stupidità irrimediabili, e che la loro messinscena da onnipotenti signori della morte ha un inizio e una fine.
ADB