
Un flop per modo dire: la direzione del Partito Democratico che si è svolta ieri sera non ha portato a nessun esito né tantomeno ad una votazione. Già prima, vi erano state molte critiche da parte delle minoranze interne al partito che oltre ai numerosi argomenti all’ordine del giorno da affrontare hanno lamentato il fatto che si trattasse di una convocazione tardiva, last minute, con un preavviso di sole 48 ore.
Il deputato Alfredo D’Attorre ha infatti dichiarato che “l’urgenza si capisce se riunioni come questa ci sono prima di vertici importanti. Si capisce meno se riunioni come questa sono a valle, seguono incontri già fatti”.
“Non si capisce neanche perché nel pieno della sessione di bilancio rispunti il tema della legge elettorale. L’accelerazione su questo tema produce la percezione che l’opzione voto anticipato stia tornando in campo”, ha poi aggiunto D’Attorre.
Immediata la replica del presidente del Pd Matteo Orfini: “La Direzione può essere convocata d’urgenza in caso ciò sia reso indispensabile dall’agenda politica. Spero pertanto che chi ha annunciato di non voler partecipare possa rivedere questa decisione”.
E lo stesso Giuseppe Civati si lascia andare ad una battuta: “La prossima volta suggerisco a Renzi di portare direttamente Berlusconi alla nostra direzione”.
Il leader del Pd e presidente del Consiglio Matteo Renzi , è giunto in sede, dopo aver incontrato Silvio Berlusconi con il quale dopo le polemiche è stato rinnovato il cosiddetto “Patto del Nazareno”, non demorde e nonostante l’annuncio che non si sarebbe votato ha commentato: “Non cambia niente, ne abbiamo già discusso tante volte: non ho bisogno di un nuovo mandato. Siamo in un momento delicato della legislatura: la legge elettorale è il presupposto per mostrare agli italiani che stiamo facendo le cose sul serio”.
Il segretario del partito, sconfitto, sfida però la minoranze e difende l’Italicum 2.0: “Questo modello permette a qualcuno di decidere. Senza la decisione non c’è democrazia politica, diventa il bar dello sport e così si perde la credibilità e la stima dei cittadini”.
E per quanto riguarda le alte priorità che erano in discussione come lavoro, giustizia e riforma della Pa, Renzi ha poi aggiunto: “Abbiamo un disegno organico per modernizzare il Paese: il Pd si candida da solo a guidarlo e riformarlo. E solo così possiamo guidare l’Europa”.
Infine, Renzi in cerca di unità ha dichiarato che “per una volta con tutti i nostri limiti diciamo che la direzione è servita e abbiamo portato maggioranza e opposizione a condividere questo pezzo di strada”.
Prima della direzione le componenti della minoranza si sono riunite nella sala Berlinguer a Montecitorio per discutere della riforma della legge elettorale, Italicum e del Jobs Act.
Tra i presenti vi erano Massimo D’Alema, Stefano Fassina, Cesare Damiano, Guglielmo Epifani, Gianni Cuperlo, Alfredo D’attorre e Pier Luigi Bersani che ha commentato “l’auspicio è che il governo non metta la fiducia sul jobs act nel testo approvato dal Senato. Esiste un tema di lealtà alla ditta ma anche un tema di dissenso nel merito”.
Insomma, i Civatiani e Fassiniani hanno criticato il fatto che oltre alla legge elettorale, tra i punti ci sono la “situazione del governo”, la legge di stabilità, il Jobs Act, le riforme costituzionali. Un elenco che richiederebbe giorni di discussione, contrariamente a quanto stabilito dal cronoprogramma di Renzi.
JOBS ACT
Nello specifico della riforma del mercato del lavoro, nel giorno della direzione sono stati presentati proprio sul Jobs act, una quindicina di emendamenti, della minoranza, tra cui uno con il quale è stato chiesto che sia recepito il documento approvato in direzione del Pd sull’articolo 18 per mettere dei paletti al governo nel varo dei decreti delegati. Ovvero, viene chiesta “la garanzia della reintegrazione del lavoratore nei casi di licenziamenti per motivi discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica delle fattispecie”.
Tra gli altri emendamenti, anche l’argine sul demansionamento, i voucher, la cig per cessazione d’azienda, il disboscamento dei contratti, la violenza di genere, i congedi parentali oltre a chiedere che venga effettuato un monitoraggio sull’attuazione della delega.
Per Stefano Fassina inoltre la fiducia su una delega in bianco sarebbe “un problema politico e costituzionale”.
Polemiche anche sulla tempistica, per cui c’è chi sostiene che il testo deve essere approvato dopo la Legge di stabilità, mentre il premier è determinato a farlo approvare prima della legge di stabilità.
RIFORMA ELETTORALE
Per quanto riguarda la riforma elettorale, le critiche in direzione sono arrivate anche da alcuni renziani presenti alla Leopolda di Firenze che lamentano la decisione di abbassare le soglie di sbarramento, così come il numero dei collegi: “Diminuire la soglia al 3% significa cedere alle pressioni, costerebbe una eccessiva frammentazione, con possibili conseguenze sulla governabilità”.
Lo stesso per i collegi che passerebbero dai 120 del testo approvato alla Camera ai 75 dell’accordo del vertice di maggioranza che per l’ex radicale Roberto Giachetti secondo spezzerebbe il rapporto stretto tra l’eletto e il territorio.
Le perplessità sono molte e c’è chi come Fassina ha la sensazione di uno scenario pre-elettorale.
C.D.