Birmania e immigrazione, Obama gioca le sue carte

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Barack Obama e Aung San Suu Kyi a Rangoon (Mandel Ngan/Getty Images)

In Myanmar – Birmania –  in occasione dell’East Asia summit Barack Obama si è appellato allo svolgimento di elezioni “libere ed eque” nel Paese, in vista delle legislative del prossimo anno. Lo ha fatto con una conferenza stampa congiunta con l’oppositrice Aung San Suu Kyi, icona democratica birmana e premio Nobel per la pace da anni agli arresti domiciliari nella località di Rangoon. Obama ha affermato che la democratizzazione in Birmania non è “completa né irreversibile”.  Suu Kyi potrebbe arrivare alla presidenza del paese del sud-est asiatico dominato fino al 2011, e per mezzo secolo, da ufficiali militari. Al momento, però, la Costituzione è ancora restrittiva nei suoi confronti e dovrà essere modificata perché possa candidarsi. Proprio in Myanmar, durante il tour asiatico in cui Obama sta cercando un riscatto internazionale, il presidente Usa ha aperto il capitolo di politica interna in un colloquio con i suoi collaboratori. Da fonti vicine alla Casa Bianca trapela la notizia che gli Stati Uniti potrebbero essere vicini a un cambiamento epocale sul tema dell’immigrazione. Una volta tornato a Washington, il presidente vorrebbe portare a compimento una riforma che preveda il rafforzamento dei confini nazionali, la sospensione delle deportazioni, ma soprattutto un’amnistia sullo status di milioni di immigrati clandestini. Coloro sprovvisti di permesso di soggiorno, ma con figli nati negli Usa, potrebbero così fruire di un maxi emendamento. I clandestini “regolarizzati” otterrebbero un permesso di lavoro, il Social Security (una sorta di codice fiscale) e tutti i documenti di identità emessi dal governo o dagli enti locali. La data di ufficializzazione della legge potrebbe essere il 21 novembre. Dopo il protocollo sul clima, l’ immigrazione. E’ così che Barack Obama sta cercando di recuperare credito sul proprio elettorato, dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm dello scorso 4 novembre. E’ così che sta definendo l’America da consegnare al suo successore, sia esso democratico o repubblicano.

C.M.