“Adieu au langage – Addio al linguaggio”: recensione

ADIEU_AU_LANGUAGE_PosterIta_1400x2100_WEBUn uomo single e una donna sposata si conoscono e si amano nella vita, litigando furiosamente. La loro storia si intreccia con quella di un cane che sogna e comunica, girovagando per la città e le campagne. Intanto, il rapporto della coppia cambia. I due si separano per poi rincontrarsi insieme al cane, che stavolta resta con loro. Il ritorno dell’ex marito di lei, però, rovinerà tutto.

Inizia così un secondo lungometraggio probabilmente   differente dal primo. Dai rapporti umani  si passa alla metafora. Il film di Godard termina con il vagito di un bambino tra i guaiti del cane.

Adieu au langage – Addio al linguaggio dell’ultimo titano della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard,  ha vinto il Premio della giuria del Festival di Cannes 2014 ex aequo con il film di Xavier Dolan, Mommy. Il film di Godard, girato in 3D è un densissimo film-manifesto che riflette sul ruolo del cinematografo e dello spettatore tra presente, passato e futuro. Nel  2007 lo scrittore e regista Alain Fleischer ha girato un documentario intitolato “Morceaux de conversations avec Jean Luc Godard” dedicato al pensiero teorico-filosofico che ha caratterizzato la carriera del regista.

Il documentario, girato in più location (la casa del regista a Rolle, al Fresnoy e al Centre Pompidou di Parigi) racconta degli incontri avuti da Godard con i suoi amici intellettuali parigini (Dominique Païni, André S. Labarthe, Jean Narboni, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet e altri ancora). Tali conversazioni, inerenti la storia, la politica, il cinema e il suo rapporto tra immagine e tempo, furono da stimolo alle successive riflessioni che Godard stesso propose per un corso di cinema, che fu respinto, al Collège de France.

Dalle ceneri di questo progetto nacque in Godard il desiderio di realizzare nove film per offrire un nuovo sguardo teorico-critico sul mondo del cinema e degli audiovisivi, unitamente ad una mostra cinematografica al Pompidou di Parigi. Nel documentario Godard spiega come l’equazione basilare dell’invenzione del cinema non consisterebbe “nell’immagine fotografica più il tempo”, ma nel concetto di “microscopio più telescopio”. In pratica, per Godard la funzione della macchina cinema non sarebbe quella di “fermare il tempo”, permettendo alla realtà che vediamo di “persistere” nei nostri occhi, rimanendo disponibile indefinitamente, ma quella di mostrare quello che i nostri occhi “non riescono a vedere”, allo stesso modo del telescopio e del microscopio, che hanno la funzione di rendere visibile l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. In Adieu au langage – Addio al linguaggio c’è una frase chiave di Monet che può aiutare meglio di chiunque altro a comprendere questo concetto. Monet invita a “non dipingere ciò che si vede, in quanto non si vede nulla, ma a dipingere solo quello che non si riesce a vedere”.

Per Godard, pertanto, il cinema si “fa”e si costruisce partendo da luoghi irraggiungibili e la macchina da presa deve essere collocata in un spazio non visibile ai nostri occhi. La realtà, che è la “vita dei nostri occhi”, non può e non deve essere salvaguardata, ma “annullata”, distrutta, fatta morire a vantaggio degli occhi-obbiettivo della macchina, gli unici in grado di insegnare ai nostri come e dove guardare. All’inizio del film Godard dichiara testualmente: “Siete pieni di gusto della vita. Io sono qui per dirvi di no e per morire”.

Questo vuol dire che se per il regista francese il cinema è una “immaginare senza la realtà”, allora dobbiamo rimuovere la vita dal nostro sguardo attraverso la macchina. In qualità di film-saggio in 3D, costruito su un puzzle infinito di immagini, musiche, idee, riferimenti, canti, pensieri, monologhi (si va dai mandala tibetani a citazioni di Flaubert, Lévinas, Cèline, Dostoevskij, Monet, Solgenitsin, Fritz Lang, per finire ad uno dei precursori del “pensiero moderno”, Aldous Huxley) dove il concetto di forma-immagine domina assoluto, Adieu au langage – Addio al linguaggio di Godard non è solo la summa e il testamento del regista, ma una “creatura” che obbliga lo spettatore a riconsiderare il suo ruolo e quello del mezzo cinematografico stesso, prima di prendere posizioni definite o di emettere un giudizio sull’opera.

Adieu au langage – Addio al linguaggio è la classica pellicola di rottura, come tutto il cinema di Godard, dove l’immagine non si avvicina né si congiunge allo spettatore, anzi se ne allontana alla grande, producendo una spaccatura netta su una realtà non rappresentata, né rappresentabile così come noi la vediamo. Uno dei punti cardine di Adieu au langage risiede, pertanto, sul ruolo della visione all’interno del rapporto tra immagine e linguaggio: una visione, di fatto,  “separatrice”, “antagonista”. Secondo Godard, quest’ultima caratteristica sarebbe la sola a rappresentare le vere possibilità del cinema. Ma il cinema se ne sarebbe allontanato, prediligendo un tipo di narrazione sempre uguale, consistente in una mera pratica di illustrazione e di adattamento di novelle e romanzi.

Le provocazioni, le sovrapposizioni e le separazioni di figure, frasi e persone (i due amanti che si lasciano e si riuniscono anche grazie al cane Roxy) del film, sembrano suggerirci che se l’immagine diventa tutt’uno con la parola rischia di morire, ripudiando la sua libertà. Tale riflessione, che è più un atto di accusa da parte di Godard, era già presente nei sei video documentari dal titolo Histoire(s) accreditati al regista francese. Una frase del film recita che la vera liberta consiste nell’estraneità e nella separazione e che “solo gli spiriti liberi sarebbero estranei l’un all’altro”. E’ probabile che Godard, con la scenetta in costume che vede Mary Shelley in compagnia di Lord Byron, intenta a scrivere Frankestein, vuole suggerirci che Adieu au Langage è una creatura, un film-Frankestein, assemblato con diversi materiali audiovisivi, all’interno del quale è necessario distinguere questa operazione di separazione tra parola e immagine. La generazione del segno e della visione, intesa come “luogo dove andare a guardare”, nel cinema di Godard è, quindi, direttamente proporzionale ai gradi di separazione tra la parola e l’immagine.

Il terzo protagonista del film è il “cane-metafora” Roxy che riflette, parla e comunica, contemplando la natura. Roxy si sposta di continuo, facendosi anche trasportare dalla corrente di un fiume. Roxy potrebbe essere una figura archetipica dai connotati doppi: il suo girovagare tra la natura e le cose con un certo distacco, suggerisce che potrebbe essere sia Godard che lo spettatore. Roxy va “oltre”, lui non è prigioniero delle immagini come i personaggi e le parole di un romanzo alla ricerca di un significato.

Per contemplare, la natura, “l’esterno”, Godard utilizza gli occhi autentici e incontaminati del cane che, a differenza di quelli del regista, non sono influenzati da mezzo secolo di immagini provenienti dal cinema e dalla televisione. Rimane sempre il dubbio se questo film rappresenti davvero un “addio al linguaggio” oppure no, e se in futuro sarà possibile recuperare quella capacità di ricreare quei codici dimenticati e ignorati da un certo tipo di cinema. Secondo Godard questa cosa potrebbe essere possibile con la tecnica del 3D, già utilizzata nel primo capitolo della trilogia di “Disastri di 3x3D” (The Three Disasters) girato insieme a Peter Greenaway e a Edgar Pêra. L’utilizzo della tecnica 3D in Adieu au langage – Addio al linguaggio da parte di Godard è davvero stupefacente. Oltre ad utilizzare un 3D nativo, che conferisce all’immagine una notevole profondità, il regista francese si è spinto decisamente più in là nella manipolazione dei codici della stereoscopia – e quindi del linguaggio cinematografico – tramite la creazione di quella che possiamo definire come una delle prime dissolvenze incrociate in 3D nella storia del cinema. Godard usa questa dissolvenza per ben due volte: una di queste perfino con funzioni narrative.

In fin dei conti, con quest’ultima opera, Godard ci fa scoprire e recuperare quei codici che il cinema, probabilmente non conosceva o aveva da tempo dimenticato. È un addio definitivo ai soliti codici? Be’… quanti registi conoscete che a 84 anni, dopo aver esordito nel 1960 cambiando la storia del cinema, riescono a fare un film ripensando al cinema del futuro, senza ripetersi o ripercorrere sentieri già battuti?

 “Ah dieux! Oh, langage!”

Maurizio Ragazzi