Umbria, ‘Ndrangheta a Perugia: 61 arresti

Agenti del Ros dei Carabinieri (Mario Laporta/Getty Images)
Agenti del Ros dei Carabinieri (Mario Laporta/Getty Images)

La criminalità organizzata si annida in varie realtà territoriali e come emerso in numerose vicende, spesso le infiltrazioni mirano ad estendere il controllo e il giro di affari. E’ il caso dell’Umbria, dove in base ad una inchiesta denominata “Quarto passo” condotta dalla procura distrettuale antimafia di Perugia, è stata individuata una presunta “filiale” del clan di Cirò e Cirò Marina, dell’ndrangheta.
I carabinieri del Ros hanno provveduto a 61 arresti in Umbria e in altre città e hanno sequestrato beni per oltre 30 milioni di euro.

Clan calabrese a Perugia

Secondo gli investigatori si tratta di “un’associazione autonoma, radicata” che manteneva i contatti con il nucleo calabrese pur muovendosi con una certa indipendenza.
Nell’ordinanza di custodia cautelare per cui sono contestati reati a vario titolo che spaziano da associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, danneggiamento, bancarotta fraudolenta, truffa, trasferimento fraudolento di valori, traffico di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione, viene indicato che “l’inchiesta ha documentato le modalità tipicamente mafiose di acquisizione e condizionamento delle attività imprenditoriali, in particolare nel settore delle costruzioni, con incendi e intimidazioni con finalità estorsive”.
L’organizzazione aveva un centro operativo a Ponte San Giovanni, piccolo paese nella provincia di Perugia e una serie di basi logistiche dislocate nel territorio, tra le quali il bar Apollo 4 e il ristorante La Piscina, capannoni industriali, un appartamento a Ponte San Giovanni dove vi era lo spaccio di cocaina e prostituzione e un pub.
Le modalità con le quali operavano era quelle tradizionali, spaziando dalle estorsioni, agli incendi dolosi nelle aziende di molti imprenditori, minacce, traffico di stupefacenti, truffe e usura. Tra i casi riportati, si elencano anche teste mozzate di agnello e taniche di benzina lasciati davanti agli uffici delle ditte.

Il gruppo umbro quando si relazionava con potenziali soggetti riferiva di essere collegato con i capi delle ndrine di Cirò e tra le minacce ricordavano che “in Calabria è consuetudine murarli nelle gettate di cemento”.
Il clan si era insediato nel territorio quindici anni fa e ha iniziato ad operare nella regione. I carabinieri hanno documentato degli incontri tra il gruppo umbro e i fratelli Vittorio e Vincenzo Farao, figli di Silvio Farao e cugini di Giuseppe Farao, considerati dagli inquirenti i reggenti della cosca.

Procuratore nazionale antimafia

A margine di una conferenza stampa, il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti ha evidenziato ai microfoni di Rainews la differenza tra il caso di Perugia e quello di Roma, sottolineando che “nell’intervento di oggi non ci somo collegamenti con la politica e pubbliche amministrazione, ma un radicamento di un gruppo criminale di provenienza calabrese di Cirò e che aveva sviluppato una serie di attività criminali, una vera e propria holding criminale, che con questo intervento è stata bloccata”.
“Guardiamo con soddisfazione il risultato che è un segnale importante per gli imprenditori vittime”, ha poi commentato Roberti, aggiungendo che “i cittadini devono denunciare quando vedono che lo Stato è presente e le istituzioni devono conquistare questa fiducia”.
“A livello nazionale, questa indagine di Perugia è stata coordinata con la procura di Catanzaro e si è sviluppata in modo coordinato e tempestivo e deve essere sempre così. Da magistrato -ha poi concluso Roberti- credo che lo Stato deve dare il segnale di volere veramente combattere la mafia e credo che lo stia dando. Dovrebbe fare altrettanto contro corruzione e criminalità economica che sono le stesse facce della criminalità organizzata”.

C.D.