Sharia in Arabia Saudita, donna decapitata in strada

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Sharia in Arabia (screenshot youtube)

Layla bint Abdul Mutaleb Bassim è il suo nome: una donna birmana accusata di aver violentato la figlia di sei anni del marito e di averla picchiata a morte con un manico di scopa.
Un video su youtube mostra i suoi ultimi istanti. La donna è in Arabia Saudita attorniata da alcuni uomini in un parcheggio, un luogo che sembra scelto a caso. Sono lì dare fine alla sua vita. Le grida, implora pietà. Sempre la stessa frase, «Non ho ucciso» come se non riuscisse, non potesse dire altro. Ma è tutto già deciso, lei lo sa. Gli uomini dicono qualcosa, nel tentativo di calmarla e le coprono il volto. Le grida ancora, perché vede il buio grida ancora. Viene adagiata su un fianco, sembra lottare e allo stesso tempo arrendersi, mentre il boia in abito bianco tende il velo nero con cui le ha fasciato la testa nel tentativo di farle distendere il collo per poterla colpire di netto, con un solo. E così avviene. Lei emette un grido, l’ultimo: sembra più paura che dolore. La pena di morte in Arabia Saudita è conseguenza di un’interpretazione rigida della Sharia e sia applica – sebbene non esista un codice penale scritto – per alcuni reati come omicidio, stupro, rapina sabotaggio, traffico di droga. Sono ritenuti reati perseguibili con la pena di morte, l’adulterio, l’omosessualità e l’ apostasia ossi la rinuncia alla religione Islamica; anche il solo possesso di una Bibbia può giustificare la pena capitale. Le donne possono scegliere di essere giustiziate con un colpo di pistola alla nuca per non scoprire il capo. Non sono infrequenti le condanne a morte con l’accusa di stregoneria. Per Amnesty International basta un nulla perché l’accusa sia presa in considerazione: è sufficiente che una domestica ostenti uno sguardo di sfida o se si ritiene la sua presenza causa di una qualche sventura privata del padrone, per far scattare la denuncia. Talvolta è pura ritorsione: se una donna contesta al datore di lavoro per non averla pagata o di averla violentata rischia un’accusa di stregoneria. E’ un’accusa presa sul serio dalle autorità saudite, sempre. Dal 1985 al 2013 sono state eseguite oltre 2000 condanne a morte, la maggior parte con pubblica decapitazione in luogo pubblico. Le teste sono spesso lasciate esposte a lungo, come monito. Circa la metà delle persone condannate sono stranieri, soprattutto migranti asiatici, spesso privi di risorse per pagare un buon avvocato o un interprete: tutti i processi si svolgono in arabo. Spesso le persone condannate apprendono la loro sorte poco prima dell’esecuzione quando i poliziotti sono entrati nella loro cella e li hanno portati nel luogo di esecuzione.

Armando Del Bello

Attenzione: immagini sconsigliate ad un pubblico sensibile