
Doveva essere Mattarella e così è stato. Che il premier Renzi avesse assestato il colpo del ko lo si era visto subito, quando la mattina della prima votazione la candidatura del giudice costituzionale era stata salutata da una foresta di braccia alzate. Nessuno contrario nel PD, nessun astenuto. Lì Silvio ha capito, finalmente. Non era un diversivo, non c’era fronda, falchi o faide che potessero regalargli un’altra mano sul tavolo dove si era intestardito a giocare d’azzardo. Aveva tutto da perdere Silvio. Ed ha perso. Ha perso tutto perché ha voluto salvare solo se stesso, perché la storia del Belpaese l’ha guardata sempre e solo dalla prospettiva delle sue fortune personali. La storia sono io, ha pensato, anche quando era ormai un comprimario in cerca della fortuna di un tempo, un cantante che ha perso la voce e s’intestardisce a raggiungere una nota troppo alta mentre il pubblico lascia la sala. La presunzione di un tempo e una debolezza tutta nuova, il connubio è stato fatale. Più della sentenza Mediaset, più delle scissioni e dei voltagabbana è l’elezione del dodicesimo presidente a sancire la fine politica di Silvio, incapace di congegnare un piano B, perché lui ha concepito solo e soltanto la B di Berlusconi. Avesse tenuto un basso profilo, Silvio, sarebbe finita diversamente. Si fosse limitato a giocare di rimessa, a favorire l’ascesa di un delfino, a chiedere garanzie per le solite cose, avrebbe portato qualcosa a casa oltre ad una sconfitta onorevole. Una Destra con un leader nuovo, per esempio, capace di ritrovare una propria identità e voltare pagina. E invece no: non è da lui lasciare davvero la scena e qualcun altro. Così ora Silvio il testardo incassa i dividendi di un disastro. Iniquamente spartiti tra lui e Forza Italia. Renzi non bluffava nell’indicare il candidato dei Democratici. Chi ha tentato di bluffare pesante è stato Silvio con l’aggravante che le carte in mano erano quelle: blande, sbiadite. E le conoscevano tutti. Fingere di trattare sulle riforme pur di ottenere l’agibilità politica, attraverso la grazia di un Presidente amico, o con la benevolenza dell’ennesima norma ad personam apposta alla delega fiscale alla vigilia di Natale come una stella, la sua stella, in cima all’albero.
In questi giorni il Cavaliere che fu non è molto diverso dal sodale di un tempo, Gianfranco Fini, che si fece attrarre da un Silvio ancora vitale, politicamente lucido e malvagio. Gianfranco gettò la Destra nelle braccia del leader azzurro e rimase con il cerino in mano. Il sacrificio del partito non lo rese leader di nulla. L’aveva pensata a lungo, la mossa e l’aveva pensata male perché ritenne di poter giocare alla pari con Silvio e di ottenere qualcosa in cambio. Così Silvio con Renzi: ha creduto di giocarsela. Oggi Gianfranco Fini è un ex. Forse, da oggi, anche per Silvio il cerchio si è chiuso. Renzi lo ha battuto per cinismo e freddezza, che in politica spesso si tramutano in realismo malsano, certo, ma salubre per chi lo pratica. Il leader di Forza Italia ha pensato davvero che Renzi, mentre strapazzava il suo stesso partito, avrebbe riservato a lui un trattamento diverso, rimettendolo in gioco per il piacere di fare un favore a qualcuno simile a lui. Silvio non è stato capace di leggere la partita. Il premier non ha solo messo Silvio fuori gioco. Ha fatto molto di più: lo ha fatto salire sul convoglio delle riforme, lo ha blandito, usato, e dopo lo ha gettato dal treno mentre era in corsa, senza neanche attendere il buio della galleria. Lo ha fatto davanti a tutti. Così la Presidenza della Repubblica, idea un tempo accarezzata da Silvio come uscita in grande stile dal proscenio della politica, spinge il leader di Forza Italia verso il caos interno al partito e lo costringe a cercare un uscita di sicurezza. E tuttavia in quell’edificio, ideato e pensato dal suo padre padrone, di uscite secondarie non ce ne sono, perché il leader ha disegnato solo e soltanto l’ingresso per se medesimo, quello principale. Ma le quaranta schede con il nome di Mattarella oggi recapitate nell’urna dal cuore stesso di Forza Italia sono un messaggio chiaro come la pelle di un moribondo: la casa scricchiola e si corre verso l’uscita. L’unico che non può andarsene è Silvio, prigioniero di se stesso e del proprio narcisismo. Renzi lo ha capito e ha vinto la partita. Per riuscirci è bastato poco: un anno, un plenipotenziario dall’accento toscano e uno specchio.
Armando Del Bello