
“Kenji è andato via” ha detto Junko Ishido, la madre del reporter giapponese assassinato dall’Isis. Si è rivolta ai giornalisti nella sua abitazione di Tokyo dopo aver saputo come suo figlio ha lasciato il mondo. Gli ospiti sono entrati in casa e lei si è fermata pochi istanti. Ha tentato di esprimere un dolore che lei stessa ha detto essere inesprimibile, se non con il pianto. Junko Ishido ha pronunciato altre parole negli ultimi giorni di vita del figlio, parole miti e forse incomprensibili nel loro significato più profondo. Parole di una gentilezza innata che hanno lasciato un segno, per l’insolita unione di disperazione, candore e sobrietà di cui questa donna è stata capace. L’abbiamo vista sfiorire con una rapidità straordinaria e nonostante tutto dignitosamente, in pochi giorni, gli ultimi giorni della vita di Kenji. Cinque giorni e sembravano passati quattro anni, tre giorni dopo e ne sembravano trascorsi altri cinque. Era come se il dolore avesse annullato le distanze e Junko Ishido quasi riuscisse a sfiorare Kenji, passandogli tutta la vita di cui era capace, la sua stessa vita, per tenerlo con sé fino all’ultimo.
Junko Ishido è sembrata una vittima dell’Isis più di ogni altra perché ad una creatura di questa gentilezza la violenza nera dello Stato Islamico deve essere apparsa più che ad altri un mistero, una coltre di proporzioni immani. Nel dolore Junko ha pronunciato alcune parole per ricordare il figlio, parole che hanno qualcosa di vibrante “Spero che la gente capisca che Kenji era un uomo gentile e coraggioso” ha detto. E’ una frase sfuggente che suona strana, in un momento in cui le parole potevano essere altre. E invece lei ha preferito parlare del figlio, perché tutti comprendano. Le parole sono una accanto all’altra. Kenji non era solo “gentile” come può esserlo ognuno nei confronti delle persone più care. Kenji era “coraggioso”. Quelle due parole appaiono legate da un vincolo, quasi indissolubile, come un legame tra madre e figlio. Essere gentili e coraggiosi significa avere entrambe le qualità ed una ulteriore: vuol dire guardarsi intorno, ricordarsi degli altri, anche quelli lontani, e agire. Così ha fatto Kenji. La sua “gentilezza” ha guardato altrove: ad un amico lontano, scomparso, in ostaggio dello Stato Islamico. Il suo “coraggio” ha fatto il resto. Ha cercato Haruna Yukawa, per salvarlo, sapendo di avere pochissime possibilità di portarlo a casa e non maggiori di salvare se stesso. Non fu sprezzo del pericolo ma “coraggio” nato dalla “gentilezza”. Kenji ha capito il rischio, ha lottato con se stesso. In questo è stato differente dalle vittime occidentali dello Stato Islamico finite in ostaggio per sfortuna, per un equivoco o mancanza di tempismo. Kenji è partito per la Siria a fine ottobre quando James Foley, Steven Sotloff, David Hines e Alan Henning erano già stati uccisi. La sua bambina più piccola era nata da poco. Kenji ha avuto il tempo di riflettere, di tornare indietro. Ha deciso di addentrarsi nel buio. Un buio assoluto, con ombre più profonde del buio che le conteneva.
Nel vedere la folla di reporter assieparsi sulla soglia di casa Junko ha dovuto accettare quello che mai avrebbe voluto: tra quei volti mancava quello più amato, il volto capace di riportare indietro il suo cuore. Ma non poteva più varcare la soglia della sua casa di Tokyo, Kenji, perché aveva deciso di varcare quella del pericolo. E qualcosa sembra dirci che egli non ha mai veramente rimpianto di essere partito. Mai, neanche quando la lama era sul collo: perché lui e la sua scelta sono state una cosa sola. Una scelta lucida, senza calcoli che ha fronteggiato, disarmata, la malattia jihadista. Una follia antichissima, ancestrale: un odio che viene prima del mondo e lo abita, solo per maledirlo e vederlo bruciare.
Nella lotta contro la violenza, Junko Ishido e Kenji Goto sembrano oggi gli sconfitti. Ma sebbene la lotta sia nel mondo il luogo vero dello scontro non è il mondo. E’ in noi. Solo noi sappiamo se il male e l’orrore dello Stato Islamico ci hanno sconvolti e spaventati per sempre, allontanandoci dai nostri valori, o se la testimonianza di persone come Junko Ishido e Kenji Goto hanno un richiamo più forte della violenza.
A pochi giorni dalla sua morte sembra che la scelta di Kenji abbia reso migliore il mondo più di quanto la violenza dello Stato Islamico lo abbia deturpato. E Junko Ishido sembra aver attraversato la nube d’odio che incombeva su suo figlio e vinto, alla fine, con la sua compassione per tutti, con il contegno straordinario delle sue parole. Il mondo è un disegno perfetto a cui il male si ostina a confondere la trama. Non sappiamo per quanto tempo la violenza continuerà ad accompagnarci, quando finirà per appartenere solo al passato. Non sappiamo se la terra riarsa, arida, alle spalle di Kenji un giorno avrà vita e un segno per ricordare il sacrificio di uomo. Quando un segno di pace tornerà a dirci che il mondo può diventare un luogo migliore, potremo esprimere le parole che una donna, oggi, non riesce a trovare per quanto profondo è il suo dolore. Guarderemo indietro e ci sembrerà che le parole inespresse di queste ore si siano rifugiate nel cuore del mondo e lì abbiano pregato, incessantemente, per noi tutti.
Ricorderemo allora una madre di nome Junko e un figlio. Nostro figlio Kenji.
Armando Del Bello
Si ringrazia l’Isituto Giapponese di Cultura in Roma per la comprensione e la gentilezza