“Dylann Roof deve morire”

CHARLESTON, SC - JUNE 18: In this handout photo provided by the Charleston County Sheriff's Office Detention Center, Dylann Storm Roof is seen in his booking photo after he was apprehended as the main suspect in the mass shooting at the Emanuel African Methodist Episcopal Church that killed nine people on June 18, 2015 in Charleston, South Carolina. The 21-year-old gunman is suspected of killing nine people during a prayer meeting in the church, which is one of the nation's oldest black churches in Charleston. (Photo by Charleston County Sheriff's Office via Getty Images)
(Photo by Charleston County Sheriff’s Office via Getty Images)

E’ stato arrestato l’autore della strage di Charleston. Si chiama Dylann Roof, 21 anni  con dei capelli a caschetto che ti verrebbe voglia di arrestarlo solo per quello. E’ bianco, troppo. Pallido da sembrare morto. Ma i morti sono altrove, rimpianti da una piccola comunità inconsolabile: volti che si nascondono sulla spalla del migliore amico, donne con il cuore spezzato, parenti con un prima e un dopo ormai. La vita prima di quel giorno e quella che sarà dopo. Lui, il ventunenne slavato, l’hanno preso a 350 chilometri dalla Emanuel African Methodist Episcopal Church su una strada nella contea di Shelby, in North Carolina. Era alla guida della sua auto una berlina, nera come  i lutti che ha causato, fermo davanti a un semaforo rosso. Un rosso diverso da quello che si è lasciato alle spalle. Era armato ma non ha opposto resistenza. Forse perché dopo aver stroncato la vita di nove persone ha pensato che insistere a fare il criminale  lo avrebbe esposto a morte sicura.  La vita, la sua, è preziosa, avrà pensato, in quella testa che non ha pensato nulla di ragionevole la sera  del 17 giugno, quando entrava nell’assemblea armato, pregava con i fedeli e faceva fuoco. L’importante era che lui avesse deciso, si sarà detto dietro il nulla di quello sguardo. Il mondo si adatterà.

In delitti come questi ci si cruccia sui moventi – odio razziale, problemi familiari, solitudine – dimenticandosi di come sia inutile cercare moventi in deflagrazioni di stupidità violente e repentine. Questi eccidi non si prestano ad alcuna interpretazione tranne la patente evidenza dello loro miserevole, irrimediabile efficacia nel ferire, uccidere e desertificare. Sono cataclismi, come tornado o alluvioni: non puoi ragionarci, devi prevenirli. E in casi come questo la prevenzione significa impedire la libera circolazione delle armi. Riuscirci sarebbe un miracolo pari a quello di tornare indietro nel tempo e  impedire a quel ragazzo anonimo, sgradevole, di mettere piede nella Emanuel African Methodist Episcopal Church. Farlo ragionare, portarlo via. Sarebbe un miracolo, perché gli Usa sono un Paese controllato dalla lobby delle armi, una consorteria miliardaria e rapace, così potente da aver piegato il Congresso, da sempre, e la logica ogni volta che se ne presenta l’occasione. La strage era una buona occasione per tacere. Ma le dichiarazioni non sono mancate perché c’è chi, nel bagno di sangue, teme di perdere un’oncia del proprio potere.

Charles Cotton della National Rifle Association ha detto del reverendo Clementa Pinckney, una delle nove persone uccise, padre di due figlie: “Otto persone sarebbero ancora vive se avesse permesso di portare le pistole in chiesa. Innocenti sono morti a causa della sua posizione su una questione politica”. Ha detto “otto persone” perché  non conta il pastore tra di esse: è lui il colpevole, non il ragazzino con i capelli a caschetto. Erich Pratt, portavoce di Gun Owners of America  ha puntato il dito contro il reverendo con la stessa disinvoltura con cui Dylann Roof ha premuto il grilletto: “Uno dei più grandi problemi nella chiesa della Carolina del Sud è che le  vittime erano disarmate. Nello Stato il detentore di un porto d’armi può portare armi in un luogo di culto solo permesso di un esponente della chiesa. Sfortunatamente il pastore era un attivista anti-armi. Come senatore dello Stato aveva votato contro le armi in luoghi pubblici”.

Il reverendo è causa del suo male, dunque: Dylann era solo un inconveniente da abbattere, un bersaglio facile per chi avesse fatto fuoco prima e meglio, se solo avesse avuto la possibilità di farlo. Il luogo di culto ridotto ad una bisca qualsiasi è quanto vorrebbero questi galantuomini, che accettano le stragi, i lutti, accecando  il Paese con il  mito insulso della Frontiera. I morti sono il prezzo da pagare,  come le carcasse dei bisonti caduti sotto il tiro beffardo e guascone di William Cody al servizio della Kansas Pacific Railway erano il dazio nel cammino verso la civiltà: il profitto, alla fine, tiene insieme tutto. Quasi: non l’assenza, i corpi senza vita, i nomi di quelle nove persone, il reverendo fra loro, che verranno pronunciati solo con riferimento al passato. Non basteranno i fiori, le candele, e le veglie a riportarli verso di noi, al nostro presente.

Rimane Dylann Roof, il nazistello del Profondo Sud statunitense, uno così anonimo che doveva davvero combinarla grossa per rimanere in mente a qualcuno. Dobbiamo ringraziare lui, e i galantuomini delle armi, se quelle nove persone non saranno a tavola con i loro cari, il Giorno del Ringraziamento. Roof e’ ancora in vita, ma le sue prospettive sono di poco superiori a quelle di un’efemera, perché sangue chiama sangue. Nell’America rurale, dove l’odio razzista ha radici ostinate come un intrico di rovi, accanto alle armi c’è la Bibbia, quella dell’occhio per occhio, dente per dente. Avrebbe dovuto meditare su questo il pensiero di Dylann Roof, mentre si librava tra spifferi e correnti di quella testa vuota. “Questo è uno Stato ferito perché nove persone innocenti sono state uccise” ha detto Nikki Haley governatrice della Carolina del Sud. Ed è arrivata la logica risposta ad un crimine illogico: “Vogliamo per Dylann Roof la pena di morte”. Già: ci sono state nello Stato 43 esecuzioni negli ultimi vent’anni, l’ultima nel maggio 2011. Tutte per omicidio. Dylann si è guadagnato nove capi di imputazione, perché per nove volte, in una manciata di minuti abissali, ha portato via la vita ad un suo simile. Nella Carolina il 44 non è un numero che porta sfortuna. Doveva pensarci, Dylann, perché il Profondo Sud, bianco e nero, nonostante le tensioni e le arretratezze, ora piange unito i fedeli dell’Emanuel African Methodist Episcopal Church. Si strugge e veglia. E di quella testa vuota e dei suoi capelli da paggetto sembra possa fare a meno.

Armando Del Bello