PD, i conti non tornano

Italian Prime Minister Matteo Renzi talks to the media at the end of a Special EU Summit on the Greek crisis at the EU Council building in Brussels, July 07, 2015 European leaders gave debt-stricken Greece a final deadline of July 12 to reach a new bailout deal and avoid crashing out of the euro, after Greek voters rejected international creditors' plans in a weekend referendum. AFP PHOTO/THIERRY CHARLIER (Photo credit should read THIERRY CHARLIER/AFP/Getty Images)
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Qualcosa continua a non tornare nel PD. Il presidente Matteo Orfini sembra confermarlo con un tweet laconico, che tuttavia dice più di mille parole “Che alcuni senatori del mio partito minaccino il ‘Vietnam parlamentare’ contro il nostro governo a me pare incredibile. Ma forse sono strano io”.

L’accenno sembra avere un peso specifico particolare in ragione del senso di disarmato stupore che pervade l’annotazione. Il cinguettio non ha misteri: è rivolto all’atteggiamento della minoranza PD  sulle riforme, un ostruzionismo che finora Renzi ha aggirato con una certa abilità e pochi compromessi.

La scelta del premier Matteo Renzi, numeri alla mano, ha tenuto ma l’incidente in Senato pochi giorni fa sembra dire che qualcosa sta cambiando: il governo è stato battuto dalla minoranza PD, da Forza Italia e dal Movimento 5 Stelle sull’articolo 4 del ddl di riforma della Rai che prevedeva la delega al governo per la disciplina del finanziamento pubblico dell’ente. Un segnale pesantissimo che Orfini aveva capito immediatamente, tanto che nella stessa giornata commentava: “Se il voto in dissenso dal gruppo diventa non un’eccezione limitata a casi straordinari ma una consuetudine, significa che si è scelto un terreno improprio per una battaglia politica. Così non si lavora per rafforzare un partito ma per smontarlo”. Il giorno dopo il premier rispondeva allo schiaffo con la matematica: “i numeri ci sono sia al Senato che alla Camera”; tuttavia le parole di Orfini oggi sembrano rivelare un Renzi intento  più  a rassicurare se stesso che pronto alla sfida.

Verdini ed i suoi come alternativa al PD che perde pezzi sembra un’idea troppo fragile – nel voto sul ddl i transfughi di FI si sono in gran parte defilati, per caso o per calcolo – e forse per la prima volta, dopo l’incidente sulla Rai, il premier ha avuto il sospetto che il presso politico per assicurarsi il sostegno dell’ex senatore azzurro è troppo alto. Una cosa era stringere la mano a Denis quando questi era il plenipotenziario di Berlusconi: alla fine, concluso il patto, ognuno tornava a casa propria. Altro è stringere la mano a Verdini ora, che ha bisogno di una ricollocazione politica logica ed urgente –  due priorità, come tali inconciliabili. Quello di oggi è un Denis che dopo aver stretto la mano al premier vorrebbe non lasciarla più ed essere portato in salvo. Il senatore lasciato il suo partito ha fretta di lasciare quella terra di nessuno che è la prima tappa dei transfughi e,  spesso, il loro cimitero politico.  Ma un Verdini accasato in area PD è troppo anche per i giorni di Renzi. E compensare l’uscita di Cuperlo e Fassina con il toscano non è solo questione di numeri. I contraccolpi ci sono, e “l’incidente Rai” lo ha mostrato in modo esemplare. La posta in gioco è ora il ddl Boschi in Senato. Il Ministro delle Riforme è sulle spine perché anche se anche i numeri non dialogano con l’istinto questo basta a se stesso. E l’istinto da tempo – dallo strappo di Verdni e l’avvicinarsi del suo sorriso verso il lidi del PD  – ha fiutato il pericolo come una muta di cani ha sentito i rami del sottobosco spezzarsi. C’è nervosismo, quello prima di un temporale che ha colto alla sprovvista nonostante i lampi, giudicati innocui e lontani: “Chi rema contro sulle riforme si assume la responsabilità di consegnare il nostro Paese ai vari Grillo e Salvini” sibila la bella Elena, doppiata dalla vice segretaria Debora Serracchiani – bellina anche lei. Ma proprio perché di bell’aspetto Elena non fa paura a nessuno e sembra semmai fare la Cassandra a se stessa.

Intanto il premier parla di riforma della PA, del Walfare, di nuova legge sulla rappresentanza sindacale, proprio nei giorni in cui i dati sulla disoccupazione giovanile sembrano essere l’eco sinistro alla riforma renziana del Job act.  Sono numeri  – quelli dell’Istat – ben più pesanti di quelli che Renzi vanta alla Camera e al Senato: numeri, questi ultimi, che al confronto con il dramma del lavoro diventano effimeri come opinioni. E potrebbero non bastare, come le opinioni possono non convincere. Orfini lo ha capito. A Roma e in Sicilia l’orizzonte scongiurato da Crocetta e Marino è stato quello del redde rationem. «Marino si guardi allo specchio: se è capace avanti, sennò a casa» diceva il premier pochi giorni fa. «Si occupi di cose concrete: smetta di guardare a strani giochi politici: se è in grado di governare vada avanti a casa» diceva ancora il premier nei giorni caldi di Palermo.

Ma forse il ritorno alle urne, presto, potrebbe riguardare non solo loro. Matteo a differenza di Ignazio e Rosario il mandato popolare non se l’è mai sudato: è passato per la scorciatoia del Quirinale, chiedendo l’investitura del Parlamento con le mani in tasca. Ha giocato a gatto e topo con le giunte traballanti del Campidoglio e di Palazzo d’Orléans, sicuro che per cinque anni poteva guardare le elezioni degli altri. E invece no: il ritorno alle urne è come il graffio sulla macchina nuova di zecca: prima o poi capita. E fa male il graffio, certo, anche quando l’auto è stata regalata. Sopratutto quando la si è guidata con troppa disinvoltura.  Ci si sente sciocchi, allora. E si comincia a diventare saggi.

Armando Del Bello