Riforma del Senato, quel mezzo milione di emendamenti sulla testa di Renzi

Italian Prime Minister Matteo Renzi listens to a question after he delivered a speech at the Tokyo University of Arts in Tokyo on August 3, 2015. Renzi is on a three-day visit to Japan. AFP PHOTO / Yoshikazu TSUNO (Photo credit should read YOSHIKAZU TSUNO/AFP/Getty Images)
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“Siamo aperti al confronto, ad una discussione, ma senza permettere a chicchessia di mettere veti …” aveva detto il premier Matteo Renzi solo poche ore fa, alla vigilia della scadenza dei termini per la presentazione delle richieste di modifica al testo delle riforme costituzionali. Il rischio che si profilava davanti all’inquilino di Palazzo Chigi era di quelli che possono travolgere un Esecutivo e lasciare vuota la poltrona, proprio lì, a Palazzo Chigi. A settembre inizia il confronto decisivo, in particolare sulla riforma del Senato elettivo. Ma la scelta delle armi, per così dire, si fa adesso. Il premier di fronte ai segnali di ostilità della minoranza dem aveva subito risposto in stile: “ …se poi si vuole andare avanti con gli emendamenti si voterà e si vedrà chi ha i numeri”. Matteo ha evocato i numeri e i numeri si sono visti: sono oltre mezzo milione gli emendamenti – per l’esattezza 513.449  – presentati, in commissione Affari Costituzionali del Senato, con la Lega Nord che da ne firma oltre 510mila. Hanno superato i mille quelli di  Forza Italia; 194 provengono  dal Movimento 5 Stelle e un altro migliaio da Sel, che continua la sua “marcia di allontanamento” dal PD, dopo le ostilità sulla giunta Marino.

Se c’è stata una diplomazia “preventiva” per evitare un bagno di sangue sulle Riforme ha fallito:  la resa di conti, a lungo rinviata, potrebbe davvero delinearsi. Che la faccenda è seria lo si era compreso da altre avvisaglie, prima ancora dei numeri. E’ stato il Presidente emerito della Repubblica, ad indicare “il punto nodale”- la previsione di un Senato non elettivo testardamente valuto dal premier e dal Ministro Maria Elena Boschi – come fosse non solo la pietra angolare di un’impalcatura istituzionale ma l’epicentro di un prossimo ciclone politico. “La modifica su quel punto nodale del testo” ha spiegato Napolitano “farebbe cadere l’impianto di base della riforma, quale era stato delineato e ampiamente concordato”.

Ma è proprio questo, verrebbe da dire, il motivo dell’offensiva. Perché la riforma costituzionale del Senato è apparsa a troppi la struttura di una supponenza, l’ombra di un ego politico spropositato; abbatterla sarebbe il modo più profondo, perentorio e pedagogico di abbattere non tanto la riforma in sé quanto il disegno che il giovin signore ha dell’Italia e, di conseguenza, di sé. Come sperare che l’elezione del Senato non rappresenti una sfida irrinunciabile? Le ostilità hanno avuto un breve ma ben leggibile cerimoniale: fare il nome di De Bortoli per il cda della Rai – l’uomo che definì Renzi un caudillo, un maleducato di talento – ha rappresentato, da parte del rappresentante di minoranza dem, qualcosa di più di un segnale. E’ stato come sottoscrivere le affermazioni dell’ex direttore del Corriere della Sera e lanciare la sfida. Il premier non poteva fa altro che raccoglierla. Ha puntato sui numeri, come sempre: la  scorciatoia  per eludere il pantano della trattativa, la faticosa ricerca di un consenso trasversale. Una riforma costituzionale senza mediazioni, dunque: un ossimoro che è il perfetto emblema del governo secondo l’uomo di Firenze.

I numeri si avvalgono di logica schiacciante quando ogni vittoria, ogni colpo di mano riuscito contribuisce ad  irrobustire il potere e a metter fieno in cascina. Tuttavia la rapidissima parabola renziana sembra minata da un paradosso: il susseguirsi di successi potrebbe aver indebolito il premier più che rafforzato. La desuetudine alla sconfitta sembra avergli tolto qualcosa, lasciando solo la rassicurante e tuttavia ambigua consolazione dei numeri. Renzi appare come un bambino che non abbia sofferto alcuna malattia esantematica e, certo della propria forza, ha disdegnato ogni vaccino. E intanto i mesi passavano e l’inquilino del Colle cambiava. Napolitano ora può rilasciare interviste e molto altro perché il disegno costituzionale del suo pupillo vada in porto.  Ma poco di questo molto può essere anche decisivo. La differenza è qui. Una differenza capace far passare il premier dai tappeti del Quirinale all’esperienza di una passerella malferma, cigolante, appesa sopra il baratro.

Armando Del Bello