
La dichiarazione con cui il presidente russo Valdimir Putin ha preso formalmente atto delle responsabilità dell’Isis sul disastro dell’Airbus A321 russo che costò la vita a 224 persone sono l’immagine di chi le ha pronunciate. Un manciata di secondi rimarchevoli, impressionanti nella loro asciutta eloquenza. Poche parole, sibilate quasi di controvoglia, danno la misura del leader e permettono un paragone immediato, bruciante, tra il carisma dell’uomo di Leningrado e l’assenza di carisma degli altri. Prendiamo due pietre di paragone – e non di poco conto: il presidente francese Francoise Hollande che parla alle Camere riunite dopo le stragi di venerdì e il presidente americano Barack Obama durante la conferenza stampa che seguì la prima decapitazione pubblica di un americano in Siria. I due svaniscono nel confronto. Putin lascia intuire in ogni istante una forza superiore alle parole che esprime, una determinazione fredda con cui controlla un’ira inestinguibile; Hollande, in piedi, è devastato dall’emozione per una strage inimmaginabile e, allo stesso tempo, temuta. E’ furente ma sembra pieno di incertezze di fronte all’ignoto. E’ sorretto dal senso di responsabilità e schiacciato da quel peso. L’Assemblea a cui si rivolge non gli infonde alcuna forza. E’ solo, sembra esserlo e forse vorrebbe esserlo, vorrebbe essere altrove. Putin desidera essere lì. Non cerca il sostegno di nessuno. Sembra sapere in ogni istante cosa fare e come andrà a finire. Parla in maniera informale, seduto, come se la dichiarazione di guerra all’Isis fosse una pratica da sbrigare tra una faccenda e un’altra, tra una riunione e un’altra dove provvederà a pianificare, senza incertezza, la distruzione del Califfato. Obama dopo la morte di James Foley è l’immagine perfetta del bluff. Un giocatore senza carte, un tycoon in bancarotta, un burattinaio che, nel prendere in consegna i fili ingarbugliati da chi l’ha preceduto, non ha saputo dov’era l’inizio e dove la fine, e ha finto per trovarsi, lui, legato: “Continueremo a fare quello che dobbiamo fare per proteggere le nostra gente” disse. Quindici mesi sono passati; altre teste americane sono rotolate senza che un solo piano, per tentare di sciogliere il nodo gordiano della Siria sia stato tracciato, fosse anche sulla sabbia che circonda Raqqa. Non era difficile prevederlo. E’ stata necessaria altra sabbia, quella del Sinai, e altro sangue, quello russo, il 31 Ottobre scorso, per vedere la svolta – quindici giorni dopo – e percepire, impietosamente, nel bene e nel male, le abissali differenze di stoffa, determinazione e freddezza tra l’uomo di Leningrado e gli altri due. Due uomini qualsiasi.
ADB
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