Cinque anni senza la giovane ginnasta Yara Gambirasio. Ogni 26 novembre, dal 201o a Brembate è il giorno più triste. Il ricordo della tredicenne scomparsa all’uscita della palestra e ritrovata morta nel febbraio del 2011 nel campo di Chignolo d’Isola è ancora vivo. Il processo in corso a Bergamo, dove l’accusa e la difesa non si stanno risparmiando, alla fine ci dirà se a ucciderla è stata il carpentiere di Mapello Massimo Giuseppe Bossetti. Nell’attesa della sentenza, il dibattimento ci sta offrendo tanti piccoli tasselli investigativi che messi insieme permettono di trarre le prime conclusioni. Una su tutte è quella che forse ci fa più male, ovvero che Yara poteva essere salvata. È una verità dura da accettare, ma è così. Nessuno potrà mai essere incriminato quello che non è stato fatto e che si poteva fare, ma è un dato oggettivo che si è cristallizzato nel processo.
L’istituto di medicina legale di Milano, rappresentato da Cristina Cattaneo, lo ha detto chiaro e tondo nel corso della sua deposizione giurata: “Yara è morta nel campo di Chignolo in un arco di tempo che va dalle 4 alle 6 ore successive alla scomparsa, quindi tra le undici e l’una di notte. La ragazza è stata colpita da un oggetto contundente alla testa, molto probabilmente un sasso, che l’ha tramortita, e poi seviziata e torturata con almeno una quindicina di coltellate, alcune superficiali, altre profonde, come quella che le ha spezzato il polso sinistro. La morte è sopravvenuta per la debolezza dovuta alle perdite di sangue.” Una fine atroce e immeritata per la povera Yara, Un destino crudele. Uccisa da un vero e proprio mostro.
Il tempo perso
Nelle ore in cui la 13enne ginnasta, lotta con il suo aguzzino, papà Fulvio si presenta alla caserma dei carabinieri di Ponte San Pietro per denunciare la scomparsa della figlia. Il brigadiere prova a calmare le acque con la classica storia dei giovani che a quell’età spesso si allontanano di casa, ma il papà di Yara racconta del carattere e delle abitudini della figlia e insiste: “Ho paura che sia successo qualcosa di brutto”. E’ ora di cena, le 20.30 di sera. Il brigadiere chiama il nucleo investigativo di Bergamo che attiva un sistema di geolocalizzazione del telefonino dal nome Carro. Secondo Fulvio Gambirasio, emerge che il cellulare si trova tra Monza e Novara, ma gli uomini dell’Arma, forti dei limiti oggettivi di un sistema oggi non utilizzato, che indicava soltanto delle macroaree, dicono che il responso indicava soltanto la zona del nord Italia.
Il dato di fatto è che Yara è in pericolo, ma ancora viva. Eppure nessuno, tranne mamma e papà , quella sera si prende la briga di andarla a cercare.,Così, oggi, a distanza di cinque anni da quel 26 novembre 2010, ci restano soltanto diversi se e perché. E se avessero creduto al papà? E se non si fossero fatti cullare dall’ipotesi dell’adolescente che scappa a casa dell’amico o dell’amica? E se qualcuno l’avesse cercata? Molto probabilmente non l’avrebbe trovata. Ma una cosa è certa: Yara era cosciente e cercava aiuto.
MD