
Più di 80 casi di shigellosi sono stati diagnosticati tra i rifugiati in paesi dell’UE tra luglio e novembre di quest’anno, in Austria, Grecia, Germania, Olanda, Finlandia e Svezia. Si tratta di un’infezione in qualche modo attesa, poichè la malattia è endemica nei paesi di origine da dove le persone stanno fuggendo, ma la sua diffusione in Europa è un fatto praticamente inedito. La shigellosi, infatti, infezione da collegarsi al batterio della Shigella, che si manifesta in quattro forme diverse, è tipica dei paesi meno sviluppati economicamente.
In molti Stati africani, ad esempio, questa malattia – che colpisce l’intestino tenue provocando dissenteria e di solito si risolve in pochi giorni o nelle forme più gravi entro 6 settimane – si manifesta in forme molto più gravi rispetto all’Europa, dove il rischio per i cittadini comunitari potrebbe essere limitato a pochi, isolati casi in condizioni di sovraffollamento. Nel complesso, comunque, secondo una ricerca di qualche anno fa, ogni anno sono riscontrati più di 160 milioni di casi e più di un milione di persone muoiono.
Secondo lo Sportello dei diritti, “è improbabile che il numero di casi di shigellosi tra i rifugiati possa diminuire nei prossimi mesi. Il rischio per la popolazione in generale in Europa di essere colpiti da singoli casi o focolai di shighellosi svilupattosi tra la popolazione dei rifugiati rimane basso, poiché i fattori che contribuiscono alla trasmissione sono l’igiene compromessa, sovraffollamento e limitato accesso all’acqua potabile che sono specifici per alcune strutture di accoglienza dei rifugiati”.
In ogni caso, il presidente dell’associazione, Giovanni D’Agata, ritiene che nonostante in Italia non vi siano casi accertati “gli addetti alle pulizie delle strutture di hosting per i rifugiati in arrivo, insieme con gli altri operatori e volontari, dovrebbero essere considerati a rischio di una potenziale contagiosità di shighellosi”.
GM