
“Non ha mai toccato il mondo, ma il mondo è stato toccato da lui”, sono queste le parole che come un macigno sigillano la tomba del povero David Philip Vetter. Il piccolo, passato alla storia come “il bambino nella bolla”, è morto all’età di 13 anni nell’ottobre del 1984 dopo aver vissuto l’intera sua esistenza all’interno di una bolla sterilizzata e asettica. David era affetto da ADA-SCID, acronimo che sta per severe combined immunodeficiency disease (sindrome di immunodeficienza combinata grave da deficit di adenosin-deaminasi). In pratica i suoi globuli bianchi non erano in grado di affrontare ogni seppur minima insidia portata al corpo umano da ogni particella d’aria. Insomma il piccolo David non poteva avere alcun contatto con l’esterno, i suoi genitori potevano toccarlo soltanto con guanti e protezioni sterili e poteva consumare solo cibi e bevande sterilizzati. La sua unica speranza di iniziare una vita normale risiedeva nel trapianto di midollo osseo da parte della sorella. L’operazione però si rivelò fatale perché il midollo donatogli conteneva il virus di Epstein-Barr, che lo portò alla morte nel giro di due settimane.
La sua storia sconvolse il mondo e la comunità scientifica. Ci si chiedeva che tipo di vita fosse quella di David e se fosse giusto portarla avanti così. I medici confidavano nei progresso della scienza sperando che un giorno David potesse essere curato e finalmente uscire dalla bolla. Così non fu, ma la sua breve e tormentata vita, come si può leggere in un recente articolo del New York Times, ha consentito alla medicina di fare progressi enormi nel campo dell’immunologia. La cosa più commovente di questa storia è senz’altro quell’unico bacio che sua mamma riuscì a dargli quando il piccolo David uscì dalla bolla per il trapianto. Un unico, ma fondamentale contatto umano con colei che gli aveva donato la vita, prima di abbandonarla definitivamente.
F.B.