
Monsignor Francesco Milito, vescovo della diocesi di Oppido-Palmi e vicepresidente della Conferenza episcopale calabrese avrebbe consigliato a don Antonello Tropea (44 anni) di non parlare con i carabinieri quando fu accusato dai parrocchiani di omosessualità e pedofilia, e non avrebbe preso provvedimenti nel momento in cui il religioso fu ufficialmente indagato. Il vescovo, invece, non è indagato ma è emerso che non avrebbe preso “provvedimenti cautelativi né di minima verifica delle accuse rivolte all’indagato” e, secondo il giudice che ha negato i domiciliari a don Antonello, se a trovare un luogo per la detenzione fosse l’alto prelato non sarebbe ‘tranquillizzante’, visto il tentativo di ‘coprire’ l’accaduto, fatto confermato da una intercettazione risalente ad agosto. Il tutto iniziò con una lettera anonima inviata alla curia nella quale venivano denunciati gli incontri omosessuali del parroco; don Tropea ne parlò a luglio col vescovo che gli consigliò di non discuterne con i carabinieri. Le autorità, intanto, avevano iniziato a indagare sul religioso dopo che era stato trovato in un luogo appartato, in macchina assieme a un minore. Dopo due mesi di indagine, era emerso che il parroco non aveva adescato solo quel giovane ma anche altri, tutti ‘trovati’ sul social network Grinder: la canonica era diventata luogo di incontri (oltre ovviamente alla sua vettura). Il fatto che monsignor Milito non abbia preso provvedimenti, potrebbe costargli caro. Dal 2010, per volere di Papa Benedetto XVI, il Vaticano usa il pugno di ferro contro la pedofilia, una linea seguita da Papa Francesco con l’istituzione di un tribunale specifico, introducendo il reato di abuso d’ufficio episcopale. L’attuale pontefice, poi, si è sempre raccomandato di garantire la sicurezza dei minori e di non curarsi di eventuali scandali: la difesa dei deboli e degli indifesi prima di tutto.
L. B.