
La mattina del 10 gennaio 1987, il giorno del funerale di Lidia, la ragazza assassinata e ritrovata in un bosco di Cittiglio, a casa della famiglia Macchi fu recapitata una busta chiusa, regolarmente affrancata, spedita il giorno prima. Conteneva una poesia scritta a mano composta in 8 strofe di versi liberi dal titolo: “In morte di un’amica”. Non era firmata ma in fondo al foglio l’autore disegnò il simbolo di Comunione e liberazione. Una lettera che sembrava un compimento provocato dall’emozione di un lutto. In realtà era la descrizione dell’omicidio dal punto di vista dell’assassino. Le parole, cariche di riferimenti al Vangelo travisati, confusi, oscenamente usati per giustificare l’ingiustificabile, lasciano sgomenti: “La morte urla contro il suo destino. Grida di orrore per essere morte: orrenda cesura, strazio di carni” scrive l’autore. E ancora “La morte grida e grida l’uomo della croce. Perché io, perché tu, perché in questa notte di gelo, che le stelle sono così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace ….passi da noi questo calice” si legge ancora “Ma la Tetra Signora grida le sue ragioni…consumatum est…e tu agnello senza macchia, agnello sacrificale, che nulla strepiti, non un lamento…nel nome di Colui che ci ha preceduto, crocifissa, sospesa a due travi. Nel nome del Padre sia la tua volontà“. Questa lettera, grazie alla perizia grafologica, incrociata con alcune testimonianze ha permesso agli investigatori di risalire a Stefano Binda, compagno di liceo di Lidia, finito in carcere a 29 anni dalla morte della ragazza. La svolta nel caso è partita da una donna che un tempo aveva ricevuto missive da parte dell’assassino: avrebbe riconosciuto lo stile della calligrafia guardando la lettera, mostrata in tv a «Quarto Grado» su Rete 4 e notato che coincideva nello stile e nella forma con quelle che le erano state recapitate. “Cosi’ andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano e con sorpresa notavo una grande somiglianza della grafia tanto che decidevo di consegnarvele” annota il verbale del 24 luglio 2014 nella quale la donna riferisce agli inquirenti. E’ l’elemento decisivo che spazza via decenni di false piste e calunnie. Nell’ordinanza di custodia cautelare per Stefano Binda il gup di Varese Anna Giorgetti rileva la “consapevolezza” di Lidia Macchi “Sapeva di non avere avuto via di scampo sin dall’avvio dell’aggressione. Iniziata l’azione di accoltellamento, ha avuto tutto il tempo per comprendere lucidamente di essere sacrificata a morte. In questo lasso di tempo la giovane e’ stata sottoposta a una sofferenza tanto intensa da essere difficilmente descritta in modo adeguato” scrive il giudice.
Il Binda frequentava, come la sua vittima, gli ambienti di Comunione e Liberazione. Era uno dei suoi migliori amici, era spesso in casa e conosceva bene la famiglia di lei. Una frequentazione proseguita anche dopo la morte della ragazza: era stato uno dei primi a voler incontrare i suoi genitori, in segno di solidarietà. Mamma e papà Macchi per affetto e riconoscenza una sera lo vollero ospitare a cena. E lui accettò senza esitazione. L’assassino della loro figlia era lì, davanti a loro senza che lo sapessero.