È il 1984 e Steve Jobs si prepara a presentare al mondo il primo Macintosh, il computer che cambierà la storia. Una platea di oltre duemila persone freme sulle poltrone del teatro e attende l’entrata in scena della nuova invenzione della Apple facendo la ola come a un concerto rock. La tensione dietro le quinte e alle stelle, ma se c’è un uomo al mondo in grado di dirigere ingegneri, direttori marketing e giornalisti come un abile direttore d’orchestra, quello è Steve Jobs. A lui la scena, agli altri la musica.
In questo istante, nella manciata di minuti che precedono la presentazione più importante della sua vita, Danny Boyle apre il sipario su Steve Jobs. Perché al di là della cronologia degli eventi che tutti conoscono a memoria, dei pettegolezzi, dei successi e dei cocenti insuccessi che lo hanno reso famoso, e che già sono stati sviscerati nell’insipido biopic del 2013 firmato da Joshua Michael Stern, a Danny Boyle per raccontare Steve Jobs basta soffermarsi sui tre eventi che hanno segnato la sua carriera: la presentazione del Macintosh nel 1984, il lancio del NeXT nel 1988 e dell’iMac nel 1998. Tre piccole rivoluzioni nella tecnologia informatica, che il regista colloca precisamente sulla linea temporale utilizzando una tecnica di ripresa diversa per ogni momento storico, dalla pellicola 16 mm a grana larga che conferisce alle immagini un effetto decisamente vintage, a una 35 mm più pulita, fino ad arrivare alla moderna ripresa in digitale.
Una vita intera condensata in uno dramma in tre atti, questa è la trovata vincente di Boyle, che si affida completamente alla drammaturgia perfettamente bilanciata di Aaron Sorkin, premio Oscar per The Social Network, che non sale mai sul palco e contempla invece ciò che accade dietro le quinte mentre il cronometro segna pochi minuti alla messa in scena delle tre presentazioni. Qui Steve Jobs, come un novello Birdman, incontra gli attori protagonisti della sua vita, da Joanna Hoffman, l’eterna confidente, ai fantasmi del passato, come Steve Wozniak, che lo segue dai tempi di Los Altos e il celebre CEO della Apple John Sculley. Ma tra tutti la presenza che turba di più Steve è Lisa, la figlia mai riconosciuta, che misteriosamente bussa alla sua porta alla vigilia di ogni evento per ricordargli che il suo successo mondiale non fa di lui un buon padre. A quanto pare il genio visionario non è capace di amare né di lasciarsi andare a slanci affettuosi con chi gli sta vicino, ma nonostante la freddezza apparente è proprio da loro che trae ispirazione per le sue invenzioni. Un esempio è il “Lisa” Computer, progettato da Jobs inizi degli anni Ottanta, o il celebre iPod, inventato per alleggerire sua figlia da un arcaico walkman che le pesava attorno alla vita come un mattone.
Il genio visionario si fa detestare da tutti e fa brillare le sue creazioni più di se stesso, e il candidato all’Oscar Michael Fassbender riflette alla perfezioni le intenzioni del regista, che vuole uno Steve Jobs algido, diverso dal trascinatore di folle che tutti immaginano, estremamente abile con le parole ma poco umano. Fassbender non ricalca l’aspetto del genio visionario e non cerca in alcun modo di imitarne gli atteggiamenti, ma crea un personaggio completamente nuovo, assorbendo la sceneggiatura di Sorkin fino all’ultima riga. La sua perfetta controparte è Kate Winslet, che per il suo ruolo di Joanna Hoffman, la donna più importante nella vita di Steve Jobs, si è aggiudicata la candidatura all’Oscar. All’attrice il duro compito di bilanciare con il cuore l’impeto di Jobs, di risvegliare le sue emozioni più profonde e di tirare fuori l’uomo sotto una maschera di freddo autocompiacimento. Dallo scontro tra i loro caratteri antitetici nasce un film intenso, dal ritmo serrato, che si sforza di intravedere i limiti dell’essere umano dietro l’apparenza del genio, la cui l’immagine pubblica risulta sbiadita dal confronto con le passioni che pulsano dietro le quinte della sua vita.
Valeria Brucoli