Non chiamatelo “Amore”

AUCKLAND, NEW ZEALAND - AUGUST 19: Newly wed couple Lynley Bendall (L) and Ally Wanikau share a moment with their son Javarn during the reception inside the Air New Zealand hanger on August 19, 2013 in Auckland, New Zealand. New Zealand passed a bill to legalize same-sex marriage as of August 19, 2013. New Zealand is the first coutry in Oceania to leaglize same-sex marriage. (Photo by Sandra Mu/Getty Images)
(Sandra Mu/Getty Images)

Amore: s’incontra questa parola con particolare frequenza negli ultimi tempi. Se non si era eclissata nel nostro lessico certo sembrava relegata ai margini, tenuta in disparte. Qualche volta riaffiorava in disquisizioni filosofiche – Che cosa è l’amore? Qualcuno ha continuato a chiedersi. Erano riflessioni con la sentenza in tasca e giungevano alla conclusione che l’amore non esiste: è la conseguenza di realtà sociali, economiche e culturali. Ci si innamora per caso e quasi mai per davvero: crediamo di amare e ci illudiamo di essere amati. L’innamoramento dura poco, ci è stato detto fino alla nausea: diventa abitudine e convenienza. L’amore come scelta e sacrificio è diventato vittima designata di un sorriso ironico. E’ stato così che l’Amore ha perso la maiuscola: è diventato un principe caduto in disgrazia cui sono stati brutalmente sottratte prergogative e titoli. Le porte erano chiuse: l’amore è stato mandato via, deriso, confinato nelle foto color seppia dei nonni. Poteva essere lo struggimento di qualche adolescente immaturo, una tardiva malattia dell’infanzia. Ma dopo si cresce. “Salutate l’amore, siate seri”: sembrava questa una riflessione, l’ultima, piena di lungimiranza. “La fine dell’amore è il segno dei tempi” dicevano quelli che amano dire qualcosa su tutto. Un “cogli l’attimo” antico si riaffacciava nella vita di tutti i giorni e sembrava nuovo.

Era già triste, a pensarci bene, ma a qualcuno non bastava: alla vita si è sostituita la rappresentazione della vita, all’insegnamento si è preferita la commedia: lo spettacolo ha preso il posto dei padri. Chi ci ha preceduti aveva molto da insegnarci ma era un percorso duro. L’esempio non bastava. Era scomodo e difficile da seguire. Si è preferito volgere il capo a parole più dolci. L’amore non più come ci era stato detto, ma un amore ad immagine e somiglianza dei nostri capricci. Ecco allora che gli amori fatui delle soap opera, i tradimenti delle commedie da quattro soldi hanno fatto breccia nelle “generazioni di mezzo” quelle né calde né fredde: adolescenti e giovani con il desiderio di liberarsi del passato e dei suoi valori senza tuttavia riuscire a fondarne di nuovi. L’esito è stato l’indebolimento e la disgregazione della famiglia. “E’ accaduto perché la famiglia è il male, ed è crollata sotto il peso della sue contraddizioni e della sua ipocrisia” ci è stato detto. E a dircelo erano le stesse persone che avevano sentenziato “l’amore non esiste”. Sembravano non accorgersi, queste persone, che il male è ovunque, anche nelle famiglie; ma questo non rendeva la famiglia il male; era semmai un vittima privilegiata del male con la maiuscola.

Era già  una rovina, ma non bastava. Qualcuno ha cominciato a sovrapporre e confondere il significato delle parole. Sì è cominciato a dire che ogni desiderio è un diritto. Una corrispondenza impensabile per un adulto: questo è il sillogismo dei bambini, per poco tempo;  delle persone infantili per un tempo maggiore. E delle persone perdute per tutta la vita. Ma se a desiderare come un bambino è un adulto esageratamente ricco e con una supponenza proporzionata al proprio benessere la faccenda diventa seria. Il desiderio, qualunque desiderio, diventa ossessione privata elevata di rango, un capriccio a cui viene conferito il titolo nobiliare della ragionevolezza. “Prendi quello che desideri” ci è stato detto in mille modi, in mille forme diverse, fino a quando non è diventato un pensiero, un modo di pensare. Se sembra ragionevole – è stata la conclusione di qualcuno – allora può diventare un diritto e perfino una rivendicazione. L’antico capriccio ha cambiato d’abito ed ha cominciato a fare proseliti nel corpo debole del “politicamente corretto”.

Così lo sguardo di coloro che desiderano tutto ha finito per posarsi su un bambino. A desiderarlo non sono un uomo e una donna senza figli. Sono due uomini, due donne. “Prendilo, è tuo, ne hai diritto” è stato il suggerimento di qualcuno. Sembra una scena che appartiene al mito. In parte è così. Cambiano i protagonisti, non tutti. Non siamo nell’Eden e il frutto non è sull’ albero: l’oggetto del desiderio è nel grembo di una donna. E’ qui torna in gioco l’amore. Perché il passo è abissale e l’assioma “mi spetta perché lo desidero” non basta. Ma come allora c’è un suggeritore, molto scaltro, nascosto dietro l’albero dei desideri.  E’ necessaria la parola “amore” – sembra dire – perché tutto torni ad essere giustificato di fronte al mondo. Ecco allora che l’amore torna su ogni bocca, come in un poema cavalleresco: si vuole un figlio “per amore”, l’essenziale è “amarlo” perché “l’amore” è l’essenza della vita”. Non importa se sei uomo o donna, conta la capacità di amare. L’amore, schernito, dimenticato, offeso diventa il mantra di che si dice immune dall’ipocrisia. Sono gli stessi che, dopo aver indicato la famiglia e il matrimonio come culla di ogni male desiderano la famiglia,  alle loro condizioni, e invocano  l’amore nella misura in cui è l’appagamento di loro desideri.

La santificazione della rinuncia rimane fuori dalla porta. E invece si potrebbe fare altro: scegliere di non avere tutto a tutti i costi. Nella consapevolezza della propria finitezza la giusta accettazione di un limite. Lo stesso limite che ci impedisce di avere un figlio dalla propria sorella, di sposare il proprio fratello o di essere, al tempo stesso, padre e nonno della stessa persona. L’amore potrebbe giustificare la rottura di questi argini? E’ una domanda a cui “gli innamorati” non rispondono. Ma se un uomo che ha adottato un bambino insieme al compagno corresse a casa per presentarlo a suo padre, lo trovasse a letto con sua sorella e si sentisse dire “E’ l’amore figliolo” potrebbe in cuor suo ritenere che non c’è nulla di sbagliato?

Perché il presupposto “desidero, amo quindi posso” è un piano inclinato che porta queste conseguenze. Non ci sono paratie per garantire la tenuta di un argine quando è il mondo ad essere travolto. C’è un disegno in tutto questo ? E difficile dirlo ma il buon senso ci rivela la misura di un capovolgimento radicale che segue la logica di rivendicazioni crescenti. Sono conquiste – impropriamente chiamate “diritti” – tese a fondare una cultura radicalmente opposta a quella esistente. Nascosto nel desiderio di eguaglianza c’è un antagonismo feroce: osservate le provocazioni, le parate carnevalesche dove si rivendicano “diritti”, ascoltate le offese che ricevono coloro che dissentono. Nessuno, tra questi “innamorati” ha cercato l’amore vero: se così fosse non comprerebbero una gravidanza da una madre che dovrà essere dimenticata. La scelta potrebbe essere  quella di amare i bambini di una qualsiasi parte del mondo aiutando loro e le loro famiglie. Ma l’amore “riscoperto” dai genitori a tutti i costi è altro da questo: è desiderio frustrato, odio verso i limiti della propria condizione che diventa odio verso la Natura che impone quei limiti. E’  il desiderio di essere come gli altri che convive follemente con la rivendicazione rabbiosa della propria diversità. E’ l’odio – sconfinato – per chi si oppone a quel desiderio. E allora se deve essere uno scontro sia, ma non in nome dell’Amore. Questa ipocrisia, almeno, dovrebbe essere risparmiata.

Armando Del Bello