Preparatevi perché la potente sensibilità di Emanuela Nava ha di nuovo dato alla luce un libro bellissimo, poetico e intenso. Un romanzo breve per ragazzi, che si legge tutto d’un fiato; una sequela di righe dal fascino prodigioso, dove il protagonista ha una storia così commovente, così dolente e così forte che brucia in un attimo e resta inevitabilmente attaccata al cuore.
Ovviamente lo sapevamo sin dall’inizio, sin dall’incipit che non avremmo avuto scampo e che il saliscendi emotivo sarebbe entrato immediatamente in gioco, perché è un dato di fatto: Emanuela Nava è magica al pari dei racconti che inventa, al pari dei mondi che crea.
E ne Il cielo tra le sbarre c’è un universo che scalcia; c’è chi urge di venire fuori, in tutti i sensi. Di fatto, il personaggio principale, Felice, è un ragazzo tranquillo, che cerca il suono della vita in ogni cosa, soprattutto nelle pietre cave che si trasformano per lui in draghi e giganti, ma quando viene morso dall’argia, il ragno della vita e della morte, le sagge donne del paese riescono a farlo “partorire” per eliminare tutto il veleno dal suo corpo e farlo rinascere.
Non stiamo farneticando. Si tratta di un antico rituale di guarigione della Sardegna. Proprio come nel rito della taranta anche il ballo dell’argia ha un forte potere simbolico: ribaltare il momento di crisi grazie all’impegno collettivo che divampa in danze e canti.
Di fatto, l’argia è un’anima-mala che per i suoi peccati è trattenuta in questo mondo, e se qualcuno viene infettato dal suo veleno, tocca ai membri della comunità aiutarlo con musiche e balli liberatori. L’evento drammatico viene così tramutato in un’occasione di festa carnevalesca, in una sorta di momento ludico-espressivo, dove le canzoni dei suonatori, le domande incalzanti dei partecipanti al rito, il ritmo vivace delle melodie e la danza disordinata e rumorosa, accentuano la dimensione spettacolare, tragica e grottesca della cerimonia.
Ed è proprio con la celebrazione del rito dell’argia partoriente, dove tutti iniziano a mimare i dolori del parto, che Felice torna di nuovo alla luce. E rinasce pastore, protettore degli agnelli. Per questo spara una notte come tante. Spara contro chi vuole derubarlo. Per questo uccide un suo simile, un ragazzo come lui e per questo finisce in carcere. Al buio, lotta a muso duro tra muri e ferite, tra accusa e perdono, ma rinchiuso, privo della sua anima gitana, Felice si spegne come una candela: all’interno, è rotto.
C’è cura per lui, nomade dei pascoli, che da sempre vive all’aria aperta, ma che ha un cuore macchiato dalla colpa? C’è speranza in chi possiede mani mortali? C’è un’altra possibilità per chi ha commesso un atroce delitto? C’è salvezza per chi ha uno spirito assassino?
Felice non lo sa, sa solo che non sopporta il grigiore delle sbarre e vuole farla finita, ma quando scopre, nella biblioteca del penitenziario, che esiste un libro scritto da un veterinario che racconta di un’isola-carcere, di una prigione a cielo aperto, allora decide di inviare lettere di trasferimento. Brama la galera senza sbarre e il suo desiderio diviene realtà. La pena infatti la sconterà proprio lì, sull’isola-carcere. Lì lo scotto è un fardello tollerabile. Si darà da fare per accudire gli animali, ma quando nel suo animo si agiterà di nuovo l’istinto omicida, finirà in isolamento, e apprenderà che se il male non può essere estirpato, può comunque essere allontanato. Il suo percorso formativo sarà intenso, ma fiducioso, perché tutti hanno diritto a una vita degna di questo nome, non segnata dalla violenza. Tutti devono avere rispetto per se stessi e per il prossimo. Tutti devono apprendere disciplina e autocontrollo.
Il messaggio qui è chiarissimo: anche dopo la detenzione è possibile avere una nuova esistenza ed avere rispetto per la vita. Ed è con uno stile poetico e graffiante che Emanuela Nava regala al lettore una vicenda umana vista dalla parte di Caino, tant’è che il libro è patrocinato dall’associazione “Antigone” che si batte per l’equità nel sistema penale.
Ed è proprio il suo tono magicamente fuso all’essenza del mondo crudele, che ammalia il lettore. Il suo è un potente resoconto che vibra tra riti antichi di una Sardegna inedita, tra umane debolezze e sublimi ispirazioni favolistiche. Qui il dolore è un tunnel nero, ma si intravede sempre uno spiraglio di luce. Qui le suggestioni sono reali, ad esempio l’isola-carcere è un chiaro riferimento all’isola di Gorgona, che si trova nel mar ligure, l’ultima isola-penitenziario italiana, dove tra l’altro lavorò Marco Verdone, il medico veterinario grazie a cui Felice troverà la forza di reagire.
Insomma, qui, struggimento compreso, c’è l’idea che i libri sono in grado di salvarci, di offrirci nuovi mondi, nuovi modi di viaggiare con la fantasia. Infatti, quando Felice entrerà in contatto con il detenuto bibliotecario, gli si apriranno nuovi orizzonti. E quando leggerà il libro redatto del medico veterinario che presta servizio di consulenza nella colonia penale “verde” e che ritrae un altro modello detentivo, dove uomini e animali vivono in libertà e in armonia, il suo cuore tornerà a battere di nuovo.
In definitiva, Il cielo tra le sbarre è un’opera altamente educativa, perché ci insegna che tutto è possibile e che è doveroso amare la vita sempre, in ogni circostanza, perché dal male può sempre scaturire una forza benefica. È una fola moderna, toccante e irresistibile. Leggerla, sarà fonte di riflessione, perché l’universo in cui abitiamo ha delle zone d’ombra, delle crepe, delle storture che a volte vediamo e basta, altre volte invece le sentiamo dentro di noi. Solo affrontandole potremmo un giorno accarezzare le nostre ferite e quelle altrui, ma soprattutto avere clemenza per chi è riuscito a sopravvivere, per chi si è pentito di gesti orrendi e ha incendiato le fibre del miocardio torturandosi senza tregua, per chi alla fine ha scelto di non modificare l’irreparabile, ma di allontanare quell’errore incorreggibile, per chi si è dato un’altra opportunità di puntare dritto al cuore e di contagiare se stesso e gli altri con grazia, attenzione, amore. Perché al mondo serve questo. Nient’altro.
Silvia Casini
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