
Tra Storia e mito, è sempre un difficile creare un esercizio equilibrato.
Se poi nel mito c’è una storia inedita, l’affare si complica ulteriormente. Il progetto di Robin Hood ha subito numerose metamorfosi nel corso degli anni, assumendo solo in seguito la forma che ha adesso: una origin story di un personaggio che il cinema ha raccontato e iconizzato fin dai tempi del muto. Il film di Ridley Scott termina proprio laddove altri hanno cominciato la loro storia: l’esilio nei boschi da fuorilegge, il seme del conflitto con lo sceriffo di Nottingham, l’odio del re Giovanni sedimentato.
Scott mette in campo il suosenso estetico più recente, mordendo evidentemente il freno nelle fasi preliminari del film, dando poi briglia sciolta alla sua retorica dell’otturatore veloce nel terzo atto della narrazione, lasciando che l’estetismo galoppi selvaggio e senza remore.
Russell Crowe uomo in calzamaglia diventa un bizzarro ibrido metacinematografico tra il Massimo del Gladiatore e il William Wallace di Braveheart, oltre che scontati elementi proprio della mitologia dell’eroe del titolo.
Attraverso un machismo quasi d’antan, le uniche figure femminili del film sono la lunare Blanchett, la ninfetta Seydoux e la veterana Eileen Atkins. Donne che stanno al posto loro.
E, infine, la rifondazione non convince del tutto: invece di conferire al personaggio uno spessore sconosciuto, personalità ed appeal epico, finisce in con il ridurlo ad eroe comune, anonimo e poco personale.
Emiliano Stefanelli