Regionali, il Pd stravince ma non sta sereno

Matteo Renzi (TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)
Matteo Renzi (TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

In Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, renziano doc, eletto presidente con il 49% dei consensi, il Partito Democratico primo partito con  il 44,5%; il cuperliano Mario Oliverio oltre il 60%  in Calabria, con il suo partito che pur essendo ampiamente primo raccoglie il 23% mentre molte liste a suo sostegno ottengono comunque buoni risultati. Questi i risultati delle elezioni nelle due Regioni in cui si è votato ieri, antipasto di un’abbufata prevista per la primavera prossima. Tanto basta perché il segretario nazionale Matteo Renzi esulti, lanciando tweet del tipo “Vittoria netta, bravissimi Bonaccini e Oliverio. Massimo rispetto per chi vuole chiacchierare. Noi nel frattempo cambiamo l’Italia”.

Non sono da meno i suoi vice, Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani: “Siamo un punto di riferimento sicuro per gli italiani e in 9 mesi strappiamo quattro regioni su quattro alla destra: Sardegna, Piemonte, Abruzzo, Calabria , riconfermandoci in Emilia Romagna. Se l’astensione è un dato da non sottovalutare e che riguarda chi ha vinto e chi ha perso, tuttavia siamo convinti che i successi di Mario Oliverio e Stefano Bonaccini siano la risposta migliore alle aspettative dei cittadini”.

Nessuno vuole sminuire il risultato: il Partito Democratico si dimostra l’unico partito italiano radicato sui territori e contestualmente con una certa capacità di conquistare consensi. Vincono, ma come è ovvio che avvenga quando in un quadro politico tutt’altro che semplice Berlusconi e Grillo diventano dei modesti sparring partner, Matteo Salvini spaventa i moderati (che in Emilia-Romagna preferiscono infatti starsene a casa, piuttosto che sostenere un candidato del Carroccio) e il terzo polo centrista non sfonda, pagando probabilmente un appiattimento sulle posizioni filorenziane.

Poi però si guarda al tasso di astensionismo e il dato lo si legge in tutt’altro senso: in Emilia-Romagna l’affluenza cala di oltre 30 punti percentuali, in Calabria di quindici circa. In un certo senso, nella regione del Sud Italia il Pd ha tutte le ragioni per esultare: ha schiantato il centrodestra diviso puntando su una coalizione composita, con un candidato scelto da primarie vere e partecipate, capace – in termini assoluti – di prendere addirittura 150mila voti in più rispetto ad Agazio Loiero nel 2010.

Emilia-Romagna, vittoria di Pirro

Per comprendere invece quanto sia effimera la vittoria emiliana, dove la coalizione era sostanzialmente guidata da un candidato renziano, vincitore di primarie “falsate” dal ritiro della candidatura di Matteo Richetti, appoggiato da Sel che perde addirittura il “derby” con la lista dell’Altra Emilia-Romagna, basta fare un confronto con il dato delle elezioni regionali del 2010, vinte da Vasco Errani.

In quell’occasione, quasi un milione e duecentomila furono i voti per il candidato presidente e 850mila quelli per il Partito Democratico. Ieri, Bonaccini ne ha presi la metà e Bonaccini poco più di mezzo milione. Cosa abbiano da esultare i renziani per la vittoria emiliana è difficile comprenderlo: quello lanciato dalla regione “più rossa” d’Italia è un segnale alle politiche portate avanti dalla maggioranza del partito e osteggiate soprattutto dalle aree interne guidate da Gianni Cuperlo, Pippo Civati e Rosy Bindi.

Avanti con le riforme?

“Continuo a pensare che per ricucire il rapporto tra cittadini e politica esista una sola ricetta: portare a compimento il processo di riforme istituzionali ed economiche e dimostrare che la politica istituzionale abbia ancora un senso”, questo commento del deputato Pd, Dario Ginefra, riassume in maniera estremamente semplice e indicativa la capacità di leggere un risultato elettorale da parte degli esponenti renziani. Per loro, il risultato emiliano non è sintomo di un malessere generalizzato in un Paese appesantito dalla crisi, nel quale i penultimi della società, vale a dire residenti delle periferie, aggrediscono gli ultimi, i migranti, per paura di perdere l’ultimo tozzo di pane.

Il discorso dovrebbe essere generalizzato, perché non riguarda solo Renzi e la maggioranza del Pd: la sfiducia nei confronti della politica, in Italia, sembra essere destinata a combattersi rincorrendo slogan e derive populistiche, raccontando da molti mesi la storiella della svolta imminente, della crescita che sta per arrivare, mentre si allarga la forbice di coloro che pretendono diritti basiliari legati al welfare e che non li vedranno mai. Del resto, la lettura del dato sull’astensionismo da parte di una certa parte del Pd la dice lunga sul rispetto degli aventi diritto che scelgono di starsene a casa che c’è oggi nel Paese; citiamo le parole di Ernesto Magorno, segretario calabrese del partito: “Giusto riflettere sul calo dei votanti, ma senza perdere di vista che il Pd ha centrato l’obiettivo: le elezioni servono a stabilire chi governa, non quante persone votano”.

Riferimenti politici a sinistra

Totalmente diversa la lettura che viene fatta dal senatore Vannito Chiti: “Gli aspetti locali non spiegano tutto. La sfiducia verso la politica e le stesse istituzioni non si arresta ma cresce. Una parte del ‘popolo di sinistra’ non trova più riferimenti politici. Non delude il confronto interno al Pd ma i modi di gestirlo: presentare sempre le differenze come strumentali, pretestuose, un ostacolo al nuovo che avanza è un errore. Le stesse scelte di governo per affermarsi richiedono determinazione ma al tempo stesso paziente ricerca di consenso. Comprenderlo e approfondire i segnali di malessere è condizione per rispondervi in modo positivo, evitando di esserne poi travolti, con gravi rischi per la stessa democrazia”.

Un’apertura pacata alla riflessione interna, quella di Chiti, mentre alla sinistra del Partito Democratico rischia di aprirsi una voragine che né Sel, né le liste alteriste che fanno il verso alla lista Tsipras, sono forse in grado di rappresentare. Chiede di azzerare tutto dando vita a un modello di riferimento nuovo, Curzio Maltese, giornalista e scrittore, eurodeputato della Lista Tsipras, dalle colonne dell’Huffington Post, lanciando un appello determinato: “Non c’è tempo. Non c’è più tempo da perdere per costruire una sinistra di opposizione”. Maltese sottolinea come in tutta l’Europa meridionale, ma anche in Irlanda, le sinistre alternative siano riusciti a costruire dei percorsi capaci di consensi a doppia cifra.

L’ultimo caso – quello che più seduce l’eurodeputato – è quello di Podemos in Spagna. Con un po’ di fantasia, non è difficile pensare a un’esperienza del genere guidata ad esempio da un Pippo Civati della situazione, sempre che il deputato abbia voglia di lasciare il Partito Democratico, dove comunque è relegato sempre più in posizioni marginali.

Renzismo già in crisi?

Serve coraggio per sostenere quanto scrive Gad Lerner sul suo blog a scrutinio in corso: “Da Bologna è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi”. In fondo, il presidente del Consiglio è a capo del più grande partito italiano, all’interno del quale – tra malpancismi e dichiarazioni “last-minute” di sostegno alla leadership – gode di un ampissimo consenso. Ma il premier oggi, nel privato e tra i suoi collaboratori, probabilmente una lettura del risultato meno entusiastica potrebbe anche portala avanti.

Riflette Corrado Passera, leader di Italia Unica: “Renzi liquida il risultato come una vittoria, ma sbaglierebbe e di molto nel sottovalutare invece quanto accaduto. Quel che sta venendo meno e’ il renzismo di necessità, quel fenomeno per cui tanti italiani si sono affidati a Renzi convinti che fosse il leader giusto per cambiare il Paese. Oggi quegli italiani misurano l’inconsistenza di quel progetto, voltano le spalle e disertano le urne”. Per l’ex ministro, “tra Renzi e Salvini c’è uno spazio enorme da occupare, dando voce a una maggioranza che non è silenziosa, ma ‘silenziata’ dalla mancanza di una vera proposta”.

Chissà se tra qualche mese, il Partito democratico smetterà di giocare a porta vuota, trovandosi improvvisamente stretto tra la morsa di una nuova forza alla sua sinistra e di un centrodestra più coeso e meno appiattito sulle posizioni della Lega Nord, il cui leader, Matteo Salvini, stamattina è uno dei pochi a poter davvero sorridere.

 

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GM