Argentina, i militari svelano dove sono sepolti i desaparecidos

Tati Almeida observes a flag with pictures of disa

Dopo trent’anni qualcosa di importante, di straordinariamente importante, è accaduto in Argentina. Nel  processo per le torture e le morti avvenute durante la dittatura militare nel lager denominato La Perla un imputato, il maggiore Ernesto “Nabo” Barreiro, ha deciso di parlare, di rivelare i luoghi di sepoltura degli scomparsi,  i “desaparecidos”: giovani e giovanissimi che durante il regime del generale Videla e dell’Ammiraglio Massera furono rapiti, torturati ed uccisi. I loro nomi, i loro volti, lo strazio dei parenti e quei corpi mai più ritrovati divennero l’emblema di un’epoca terribile, una delle più tragiche della recente storia dell’America Latina: 30 mila persone svanite nel nulla tra il 1976 e il 1983.

Ernesto “Nabo” Barreiro

Barreiro è un imputato eccellente. Eccelleva nel male: era probabilmente il vero capo delle unità speciali. Qualcuno ne è certo. Comunque era lì, a dirigere l’orrore o almeno a parteciparvi. Il centro di detenzione clandestina La Perla è un simbolo per la città di Cordoba, nella cui provincia era situato, così come l’Esma, Escuela Superior de Mecánica de la Armada, è diventata un simbolo per Buenos Aires. Tra le sue mura persero la vita centinaia di giovani. Per comprendere l’entità di quell’orrore basta contemplare oggi l’imponenza e la complessità del processo che ne ricostruisce la storia e le responsabilità: si sono costituite le parti civili di 716 vittime. Una resa dei conti paragonabile solo a quello dell’Esma. Delle vittime del centro di detenzione solo sessantasette sono state seppellite dai familiari, dopo decenni; 13 sono morte poco dopo l’uscita da La Perla. Quando ne varcarono la soglia per tornare a casa erano già morti. Vissero quel poco per dare tempo al corpo di seguire lo spirito, già svanito tra le mura lasciate alle loro spalle. Altri sopravvissero, segnati per sempre; 283 morirono, certamente, per sparire nel nulla. Nessuna certezza sul luogo della sepoltura. Qualche ipotesi, indebolita dalla mancanza di indizi. Un dramma dell’assenza, quello argentino. Assenza di ragazzi da casa, di luoghi e di testimonianze.

Facundo Trotta

Fino a quando il maggiore Ernesto “Nabo” Barreiro ed altri tre decidono di parlare, trentacinque anni anni dopo. Diranno dove trovare i resti di 283 desaparecidos. “La Perla” cessò di operare nel 1979 sperando, forse, di essere dimenticata. E’ divenuto invece un luogo cardine nella memoria collettiva di un popolo. L’aula del processo è cominciata a diventare luogo di giustizia quando “Nabo” e gli altri hanno deciso, a modo loro, di dire basta. Mai prima, tra le centinaia di torturatori finiti sul banco degli imputati per crimini contro l’umanità, c’è stato qualcuno che abbia collaborato con la giustizia. “Nabo” e gli altri invece sembrano voler andare fino in fondo. Si parla di 25 località diverse dove cercare, segno che l’ex ufficiale sapeva molto, moltissimo. «Nessuno in precedenza ci ha dato informazioni di questo valore» ha detto Facundo Trotta, il procuratore che ha in mano il processo «È un cambiamento storico e speriamo che serva da stimolo ad altri per  parlare» ha aggiunto chiarendo che «nessun sconto di pena è stato promesso. La collaborazione di Barreiro e degli altri tre imputati è stata volontaria».
“Nabo” Barreiro si è distinto anche in passato. Fu Barreiro nel 1987 a guidare il tentativo di golpe contro il primo presidente democratico del dopo dittatura, Raúl Alfonsín. Era la sollevazione dei Carapintadas che indusse  il Parlamento argentino ad approvare un’amnistia per chi aveva violato i diritti umani durante la dittatura. Una legge abolita vent’anni dopo dal presidente Néstor Kirchner. Fu quella la prima svolta, che consentì l’avvio dei processi contro la dittatura militare. Oggi forse un’altra svolta, ancora più straordinaria. Perché l’ha decisa lui, “Nabo”.

ADB