“The trials of Muhammad Ali” in dvd: recensione

814sVJrFHTL._SL1500_Nato nel 1942 col nome di Cassius Marcellus Clay Jr., viene indirizzato alla boxe da un poliziotto di Louisville, Joe E. Martin, che ben presto lo porta ad allenarsi nella palestra Columbia, dove inizia a mettere in mostra il suo talento. Di chi stiamo parlando? Di un mito, di una vera leggenda del pugilato che ha vinto l’oro olimpico ai Giochi di Roma nel 1960, ha detenuto il titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un’ultima breve parentesi ancora nel 1978, e che in età avanzata ha brillato per le sue opere umanitarie.

Sì… avete capito bene. Stiamo parlando proprio di Muhammad Ali e delle sue prodezze sportive che segnarono per sempre il mondo della boxe. Già… perché agonisticamente parlando, Muhammad Ali riuscì a battere il grande Sonny Liston e, nel corso della sua carriera, fu protagonista di almeno due epici match: quello perso contro Joe Frazier l’8 marzo 1971 al Madison Square Garden di New York, e quello in cui atterrò George Foreman a Kinshasa, nello Zaire, nel 30 ottobre 1974.

Ed è con The trials of Muhammad Ali di Bill Siegel, che il più grande peso massimo di tutti i tempi rivive come uomo entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo e come atleta capace di non farsi buttare giù da un avversario decisamente poco sportivo: il suo paese, gli Stati Uniti d’America.

Come molti di voi sapranno, la figura del pugile Cassius Clay si impose sin da subito al mondo, già nei primi anni Sessanta, poco prima della nascita del movimento per i diritti civili negli USA. La sua trasformazione spirituale lo portò, tuttavia, a un’aspra battaglia legale con il governo americano per aver rifiutato di partire per la guerra del Vietnam, facendo emergere i suoi lati caratteriali, le sue convinzioni religiose e politiche. Così, nel 1967 venne radiato dall’albo pugilistico e arrestato.

“Non sono andato in Vietnam, perché credo che ognuno abbia il diritto di vivere tranquillo nella propria casa. Non vedo perché uno solo dei neri americani che sono privi della loro terra avrebbe dovuto andare a combattere contro chi stava tentando di difendere la propria terra”, dichiarò il campione in merito alla questione.

Muhammad Alì fu riammesso nel mondo del pugilato soltanto nel 1970, e quattro anni più tardi riconquistò il titolo mondiale battendo George Foreman. Quindi, cari fan del campione, sappiate che il documentario The trials of Muhammad Ali si configura come un appuntamento cinematografico imperdibile, perché ripercorre le fasi cruciali della sua vita: quando abbandona il nome Cassius Clay, quando si converte all’Islam, quando non parte per il Vietnam, quando riceve una dura squalifica e quando viene condannato a cinque anni di prigione. È così che Alì diventa un’icona globale della rivendicazione di diritti civili e religiosi con cui ancora oggi siamo chiamati a confrontarci.

E nel documentario, si intravedono persino alcuni spezzoni in cui Muhammad Ali, ormai annichilito dal morbo di Parkinson, non ha comunque perso la sua eleganza, tant’è che bastano, un secondo dopo, le immagini di repertorio e un po’ di materiale d’archivio per rievocare la sua ardimentosa storia e la sua carismatica figura.

Dotato di un notevole gioco di gambe, di un’elevata dinamicità, prontezza di riflessi e velocità esecutiva, Ali ballava sul ring. Di lui si disse: “Vola come una farfalla e punge come un’ape”, proprio per sottolineare la leggerezza dei suoi movimenti, coadiuvata da una tecnica sopraffina. Ma oltre a questo, era un uomo scomodo. La sua parlantina dava fastidio. La sua presunzione anche, e il suo risentimento verso uno stato razzista fece addirittura esplodere una bomba mediatica.

La sua frase, “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro” fu deleteria, vera e forte come un pugno. Per tutta risposta, ottenne una punizione durissima: lo privarono del titolo di campione, lo squalificarono, gli ritirarono il passaporto e, dopo un processo lampo, lo condannarono a cinque anni di carcere. Insomma, gli riservarono un trattamento da delinquente, perché sapevano perfettamente che la sua innata spavalderia avrebbe potuto infiammare gli animi e provocare uno tsunami antimilitarista. Ma Ali non si diede mai per vinto: ricorse in appello, nessuno lo sbatté in galera, il caso finì dinanzi la Corte Suprema, il suo no alla guerra dilagò in tutto il paese, e di fatto, la sentenza di condanna venne annullata.

È su queste basi storiche che The trials of Muhammad Ali affronta abilmente la verità scottante dietro un uomo, un pugile, un pacifista per scelta morale, ma anche i contenuti extra e le scene tagliate, mettono in evidenza la sua arroganza mista a consapevolezza, e tutti quegli eventi che lo resero popolare, perché a prescindere dalla simpatia o dall’antipatia che riusciva ad attrarre, Muhammad Ali è riuscito davvero a compiere un prodigio: valicò i confini della boxe ammantando la nobile arte di una solenne grandiosità senza precedenti.

Silvia Casini

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