
La guerra del petrolio che ormai si gioca sulle quote di produzione tra Paesi della penisola arabica, in testa l’Arabia Saudita, da una parte e Stati Uniti dall’altra, con in mezzo la Russia, rischia di far saltare alcuni Paesi dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, di cui fanno parte Algeria, Angola, Libia, Nigeria, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ecuador e Venezuela.
Se all’ultimo vertice di Vienna di fine novembre l’Opec ha deciso di non tagliare la produzione di petrolio, nonostante i forti ribassi dl prezzo, per non perdere quote di mercato sugli Stati Uniti, che nel frattempo sono diventati i primi produttori al mondo grazie all’uso intensivo delle nuove tecniche estrattive, su tutte il cosiddetto fracking, questa politica potrebbe affossare i bilanci di Paesi come il Venezuela, la Nigeria, la Libia, l’Iran e l’Iraq, la cui economia si basa soprattutto sull’esportazione di petrolio, che con un prezzo troppo basso rischia di portarli al default. In Venezuela il presidente Maduro ha già tentato di correre ai ripari con tagli al bilancio dello Stato.
Lo shale oil, il petrolio americano estratto con le nuove tecniche, ha infatti alti costi di produzione e l’Arabia Saudita conta di mettere fuori mercato gli Stati Uniti mantenendo le quotazioni basse. Una mossa che però rischia di destabilizzare l’economia internazionale e che ha già avuto le sue pesanti ripercussioni sulla moneta russa, con il crollo del rublo a inizio settimana. Anche l’economia russa dipende considerevolmente dal petrolio e un prezzo troppo basso rischia di comprometterne il bilancio.
Riguardo a Venezuela, Nigeria, Libia, Iran e Iraq, il Financial Times avverte che un prezzo troppo basso del petrolio potrebbe portare a delle vere e proprie “destabilizzazioni” in questi Paesi. E anche l’Arabia Saudita, alla lunga, potrebbe essere costretta a tagliare le proprie spese o ad aumentare il deficit.
A monte di questa situazione sta la sottovalutazione da parte dell’Opec delle nuove tecniche estrattive e dell’aumento della produzione mondiale di greggio. I Paesi dell’Organizzazione erano troppo abituati alle quotazioni del petrolio intorno ai 100 dollari al barile, ha affermato Mohammad al-Sabban, ex consulente del ministro del petrolio saudita dal 1996 al 2013, per accorgersi che le cose sarebbero presto cambiate. Ora si trovano ad affrontare nuovi scenari che potrebbero mutare profondamente gli equilibri geopolitici. Sui quali, occorre precisare, gioca un ruolo importante anche la crisi economica internazionale, che con la stagnazione dell’Eurozona e il rallentamento delle economie emergenti, in particolare quella cinese, ha provocato un calo nella domanda di greggio che a sua volta ha contribuito a far calare i prezzi.
Ieri pomeriggio il petrolio Wti era scambiato a 55,67 dollari al barile, mentre il Brent, il petrolio del Mare del Nord, a 60,45 dollari al barile.
V.B.