
Il prezzo del petrolio si è quasi dimezzato in sei mesi, con un calo del 46%, di cui il 10% solo nell’ultima settimana. Se la notizia è buona per i consumatori, che vedono scendere il prezzo dei carburanti, così come per i Paesi importatori di energia come l’Italia, non è affatto buona per la stabilità dell’economia mondiale. Il prezzo del petrolio troppo basso rischia infatti di travolgere gli equilibri economici mondiali come li abbiamo conosciuti finora, ma soprattutto è il segnale di un calo della domanda e dunque di una situazione di rallentamento dell’economia mondiale. Infatti, venerdì scorso la Borsa di New York ha chiuso in rosso a -1,75%, registrando una delle perdite più pesanti dal 2011. Un chiaro segnale che qualcosa non va.
Il crollo del prezzo del petrolio è dovuto non solo all’aumento della produzione mondiale, con lo shale oil americano che sta portando gli Stati Uniti a diventare il primo produttore mondiale superando l’Arabia Saudita, ma si tratta anche di un calo della domanda, dovuto alla grave stagnazione economica che ormai attanaglia l’Eurozona, alla nuova recessione giapponese e all’arretramento dell’economia cinese. Un continuo calo delle quotazioni del petrolio potrebbe inoltre accelerare la caduta dei prezzi in Europa, precipitando il Vecchio Continente nell’incubo della deflazione. La situazione è dunque parecchio complessa e rischia di compromettere la ripresa mondiale più di quanto si pensi e nonostante le ottimistiche considerazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che aveva dichiarato che il calo dei prezzi energetici dovuto ai ribassi del prezzo del petrolio sarà “come un piccolo programma di aiuti per la congiuntura: rafforza il potere d’acquisto dei consumatori, accresce gli utili delle aziende”.
A restituire un’efficace analisi dello scenario economico mondiale è Federico Rampini su Repubblica: “Questo non è un ribasso, è una rotta disordinata, un tracollo senza rete. La brutalità dell’evento è già di per sé un dato che turba i mercati perché tutti gli scenari ne sono sconvolti. Ancora più grave è il ribaltamento nell’interpretazione di questo sisma. Ancora poche settimane fa prevaleva una lettura di questi eventi dal lato dell’offerta: l’energia costa sempre meno perché se ne produce sempre di più. Questo è positivo, per chi la consuma. Ma più di recente è prevalsa la lettura dal lato della domanda: l’energia costa sempre meno perché se ne consuma sempre meno. Questo non è affatto positivo, è un segnale di peggioramento dell’economia globale“. Il “contro-shock petrolifero”, come lo chiama Rampini, potrebbe avere un effetto domino, con le economie dei Paesi produttori di petrolio che, a causa del prezzo del petrolio troppo basso e quindi di minori introiti per il loro bilancio nazionale, potrebbero saltare trascinando tutta l’economia mondiale. Tra questi Paesi c’è il Venezuela, che non a caso ha cercato di opporsi all’interno dell’Opec alla decisione dell’Arabia Saudita di non tagliare la produzione di greggio consentire una risalita del prezzo. Gli altri Paesi a rischio sono Ecuador e Nigeria, quest’ultimo che fino a pochi anni fa esportava ingenti quantità di petrolio verso gli Usa, ora non esporta più nulla negli Stati Uniti, data la sempre maggiore indipendenza energetica di questi ultimi. Ed è proprio sul petrolio americano, lo shale oil estratto con la tecnica del fracking, che si è scatenata la nuova “guerra mondiale”. L’Arabia Saudita non ci sta a cedere il primato della produzione mondiale agli Stati Uniti per questo non vuole tagliare la produzione all’interno dell’Opec, perché conta di far scendere il prezzo del petrolio così in basso da far saltare la costosa produzione di shale oil americano che diventerebbe antieconomica. E su questo i Paesi arabi sono uniti tanto da essere disposti perfino a far scendere il prezzo del petrolio fino a 40 dollari al barile, come ha dichiarato il ministro dell’Energia degli Emirati Arabi Uniti, Suhail Al-Mazrouei. Gli Usa però ostentano ottimismo: “Il calo dei prezzi del petrolio è positivo per l’economia”, ha affermato il segretario al Tesoro Usa Jack Dew, annunciando pochi giorni fa l’intenzione degli Stati Uniti di non ridurre la produzione nonostante il calo dei prezzi. Intanto, la guerra del petrolio è aperta.
V.B.